lunedì 1 febbraio 2010

Sette - Quello strano equilibrio




Quello strano equilibrio




Si diceva Gisa l’avesse domato.
Gli amici, invitati a cena, lo schernivano bonariamente, osservando come si adoperasse nelle faccende domestiche, a evitare i pacati rimproveri di lei.
Piero, tuttavia, non aveva un atteggiamento sottomesso; né si muoveva con l’alacrità di chi cerchi il consenso di un superiore. Piuttosto assecondava diligentemente le direttive, che Gisa impartiva con soave imperio. Non discuteva, non obbiettava; non proponeva alternative. Sembrava non avere un’opinione, riguardo al modo di eseguire quei piccoli gesti che ci accomunano nell’esistenza. Meglio ancora: apparivano estranei a lui tali innocenti dilemmi.
Era Gisa a decidere cosa si dovesse mangiare; Gisa a stabilire quale aperitivo servire agli ospiti; lei a dare il via alla cena, esortando gli invitati a servirsi. Lei a riceverli, mentre lui si occupava dei soprabiti, delle giacche, delle borse; lei il motore di ogni dinamica comune. Gisa non chiedeva: comunicava al marito; ed egli prendeva nota delle sue delibere.
«Piero, mettiamo in tavola la caraffa con l’acqua».
«Piero, i tovaglioli questa sera li pieghiamo a cono nei bicchieri».
«Piero, nel frigorifero ci sono gli affettati: prepariamo un bel vassoio. E ricordati di tagliare il formaggio in pezzi più piccini, questa volta…».
Piero eseguiva; senza interrompere la conversazione, rivolto ai suoi amici, muovendosi nella sala per attendere al compito, solo di quando in quando gettando rapide e sapienti occhiate all’occupazione che gli era stata affidata, così da evitare errori.
Le cene a casa di Gisa e Piero erano tutte piacevoli, ognuna contraddistinta da un particolare gastronomico diverso e interessante, o arricchita di una novità da commentare insieme; eppure pervase, accomunate, da questo strano contrasto, non evidente a chi non fosse abituale frequentatore dei due: un intimo e leggero sconcerto, che lasciava comunque in bocca il sapore di un dubbio. Inespresso e inesprimibile.
Gli amici, abituati a tale sensazione, quasi non vi badavano più; anzi avrebbero notato con dispiacere un diverso atteggiamento di lui, che improvvisamente turbasse quello strano equilibrio. Commentavano tra loro con invisibili sguardi e ammiccamenti; oppure vi scherzavano sopra in maniera palese, ma con garbo; per non dispiacere Piero e non offendere Gisa, sempre così gradevole e ospitale nei loro riguardi. Battute educate, figlie di una consuetudine affettuosa e calda; eppure pervase da un’impercettibile malinconia: la situazione era in tutto simile a ciò che, talvolta, accadeva nel segreto delle loro mura domestiche. Con esiti diversi. La reazione di Piero strideva con quella che tutti si riconoscevano nel privato. Uomini o donne, a seconda dei casi.
Piero era mansueto. Non si scomponeva. Restava sereno e sorridente, compiacendo Gisa con gran dignità e senso della famiglia, senza lasciarsi mai sfiorare da una minima ventata di rivalsa, o di amor proprio, e senza perdere mai la propria compostezza gradevole. Come se Gisa avesse la precedenza assoluta, su tutto. Non esisteva argomento di conversazione che lei non potesse arbitrariamente interrompere, con richieste anche banali.
«Piero, verresti a raccogliermi questo straccio da terra?».
Non esisteva fotogramma o scena di film, discorso, storia, tensione drammatica o comica, climax di alcun genere, che Gisa non potesse far cadere con un suo intervento. Senza che, per questo, Piero si scomponesse in alcun modo.
Ciò che rendeva queste situazioni oggetto di conversazione era proprio il suo  atteggiamento sereno e sorridente, contrapposto a quello loro, nelle loro case, con le proprie mogli o compagne; mariti o compagni che fossero. In Piero non vi era l’ombra di un'insofferenza malcelata; di un'occasionale ribellione; di quel legittimo desiderio di rispetto, di riconoscimento della persona, che ognuno di loro tentava, rischiando apertamente l’ennesimo acido, e nascosto, litigio. In Piero vi era una consapevolezza silenziosa.

Non era sempre stato così.
Piero era stato, e rimaneva, persona fiera e idealista. Sul lavoro come nelle amicizie. Nello sport, nel gioco e nelle diverse situazioni della vita. Chi di loro lo aveva conosciuto e frequentato sin da ragazzo sapeva bene che con Piero era sempre stato piacevole, ma faticoso, avere a che fare. Determinato, puntiglioso e caparbio. Leale come un libro aperto, ma disposto a tutto il lecito pur di difendere un principio, Piero era sempre stato persona infaticabilmente ricca di parole e argomenti.
Da ragazzi, era l’amico di cui non puoi fare a meno per animare una serata; colui che ha sempre un’idea originale, comunque dinamica, e soprattutto l’entusiasmo, l’energia per sostenerla, contro la pigrizia del gruppo. Difficile rimanere inerti per una intera serata, lui presente. La sua voglia di fare, il suo desiderio di vivere e di sperimentare situazioni nuove, erano sempre stati contagiosi. Li rendeva contagiosi egli stesso, parlando con tutti e convincendo i più restii a muoversi; a partecipare. A lui, talvolta anche ora, si dovevano gite improvvisate, serate spassose in discoteca, feste di compleanno con sorpresa, scherzi salaci fatti in amicizia, per trasmettere l’affetto del gruppo, più che lo scherno.  

Ma era nelle discussioni che il carattere di Piero aveva sempre rivelato la sua vera natura. Se un argomento o una tesi gli stava a cuore, o peggio, se una discussione si sviluppava coinvolgendolo, Piero diventava veemente, acceso, all’occorrenza caustico. La sua perseveranza e la determinazione, sfiancanti. Era dotato di un raziocinio lucido e rapido, che sembrava accendersi, sulle questioni di principio. Aveva padronanza di mezzi espressivi, fossero parole, mimica o gesti. I suoi argomenti erano sempre rappresentati, come in un’intima orazione forense, con artifici retorici semplici, ma ricchi di effetto; e chiari, intelligibili. Le sue opinioni sembravano curiosamente inoppugnabili anche quando sbagliate, o impopolari; perché non erano scorrette o offensive. Determinate, sì, ma mai indifferenti alle ragioni altrui. Ragioni che egli contestava passo a passo, pur affermando di capirne i motivi. Fino alla fatica. Fino allo sfinimento.
Sia chiaro, Piero non inseguiva l’interlocutore, se quello non aveva più voglia di misurarsi. Era rispettoso. Ma in piena conversazione non mollava l’osso, fin quando non otteneva ragione. Oppure fino a quando non si convincesse di avere torto. Cosa che ammetteva senza difficoltà, né rabbia, ma forse con l’intima soddisfazione di avere sfiancato l’occasionale interlocutore. Da adolescente, quando ogni discussione pare un affare di stato, perché palestra di crescita e di misura del sé, rasentava a volte l’arroganza. La maturità lo aveva migliorato. Aveva rafforzato in lui l’idea della propria quadratura, rendendo superfluo un continuo banco di prova. Era diventato più difficile coinvolgerlo in discussioni. Ma non meno rischioso.
Quando ciò accadeva, lo ritrovavi  idealista e infaticabile come sempre.
Fino a Gisa.

La relazione con Gisella era nata per caso, poco dopo la laurea, durante una di quelle gite che il gruppo organizzava nella bella stagione. Come molte delle storie che sbocciano tra caratteri fieri, i due si erano affrontati, e riconosciuti, in un tremendo litigio d’esordio; una interminabile discussione, esplosa all'improvviso, su argomenti lontani dall’interesse quotidiano.
Era domenica; in giugno. La combriccola seduta su un prato, intorno a un paio di teli imbanditi. Al termine del pranzo, con l’ultimo vino sul fondo dei bicchieri, si erano tutti distesi a guardare le nuvole, un braccio dietro la nuca, qualcuno una sigaretta, gustando la digestione e l’intimità del cielo.
Lei, Gisella, (era una delle prime volte che partecipava) aveva fatto un'affermazione delle sue. Una di quelle frasi, solitamente innocenti, che rompono l'ultimo silenzio di una conversazione esaurita; il concetto che risuona, anziché dissolversi, e talvolta ti lascia interdetto poiché non sai bene, se si tratti di una banalità pazzesca o di una incontrovertibile verità. Qualcosa tipo: «Siamo tutti corruttibili! Ognuno di noi ha un prezzo!». Oppure: «Tutto è relativo; non esiste la verità!». Frasi che Gisa buttava lì quasi casualmente, con il suo sorriso solare e sbarazzino, ma in realtà servivano a calmare la sua inquietudine per un dissenso ricevuto; per un concetto incompreso, o mal gradito da lei stessa, riconducendo ogni idea sin lì sviluppata a un metro imperturbabile. Meno ansiogeno. Quasi giustificativo.
Piero si era rialzato, appoggiandosi su un gomito, l’aveva guardata, gettando via la sigaretta, e aveva mormorato: «Non crederai davvero a ciò che dici?!».
Ne era nata una discussione seria. All’inizio pesata. Poi aspra. Dapprima con il contributo un po’ timido di qualcuno. Poi, quando fu chiaro che Piero e Gisa si stavano affrontando esclusivamente, senza spazio per gli altri, era proseguita nel silenzio generale. Infine, gli amici li avevano separati, intromettendosi, quando i due erano giunti a urlarsi in faccia tutto il proprio disprezzo; la reciproca, assoluta, totale incomprensione.
Gli inviti a non rovinare una così bella giornata avevano riportato la calma, e la misura.
A sera, i due erano rientrati a braccetto, sorridendosi di desiderio, dopo un pomeriggio trascorso in spiegazioni. Tra le risate e le illazioni di tutti.

Non era una sciocca, Gisa, né una superficiale. Tutt’altro. Semplicemente, detestava la solitudine e il senso di angoscia che da essa origina in ogni sua forma, prima tra tutte l’idealismo. Era una bella donna, volitiva e tenera; garbata nei modi e dolce, nella sua caparbietà; ma assolutamente inamovibile sul concetto che tutti si sia accomunati dai medesimi aneliti e difetti, e che non si possa sfuggire a questo dato di fatto, come a un cardine dell’etica e del comportamento. Non detestava l’originalità, o l’idealismo: li considerava inutili. Un esercizio di stile vacuo, da abbandonare ogni qualvolta la vita imponga – come impone – scelte o ritmi. Si riconosceva come parte di una collettività semplice, complice e sottaciuta. Da ciò traeva la sua forza vitale, e una tolleranza innata per ogni errore possibile, suo o di altri, affrancandosi da giudizi di merito, da confronti e, soprattutto, da precetti.
Per lei l’ideale era sempre smentito dai fatti. Viveva con dedizione e spirito pratico ogni sua attività, all’ombra di quest’idea. Lavoro, sport, hobby, casa; riusciva benissimo in tutto, immancabilmente. Con una serenità tutta sua, che sembrava inarrivabile agli altri. Era delicata nei modi e ferma nella cortesia. Tollerante e comprensiva. Aveva sempre una parola buona, per sciogliere una situazione critica; per confortare l’amico o l’amica in difficoltà. Per giustificare una manchevolezza. Solo la ferma determinazione di Piero, e le sue idee originali, la contrariavano, ogni tanto. Ma la vedevi reagire sempre in maniera positiva. «Piero non è diverso dagli altri» diceva spesso, guardandolo teneramente. «Lo conoscete male: gli piace sentirsi così. Vive sulle sue nuvole; ha un caratteraccio. Ma è buono. Soprattutto sa, anche lui, di essere come tutti. Pure se non lo ammetterà mai».

Nessuno si meravigliò, quando Piero e Gisa decisero di sposarsi, di lì a breve. Era una conferma della coincidenza degli opposti, di liceale memoria. Faceva piacere, anzi, notare come Piero fosse diventato protettivo; attento a non eccedere; e come lei fosse serena, e assai più rilassata nei suoi confronti. Certo, ci si chiedeva sempre come facesse Gisa a convivere con l’idealismo di Piero; e quanto a lungo Piero avrebbe sopportato l’idea che quelle di principio fossero considerate, da Gisa, questioni di lana caprina.
Divennero invece la coppia modello, invidiata e amata. Furono, in breve, il riferimento e l’esempio per chi avesse un occasionale problema di convivenza. Si faceva gara a invitarli, perché il loro divertente contrasto, così civile e argomentato, arricchiva la serata ed era un esempio per crescere; per superare le difficoltà di cui è disseminata la vita.

Notarono tutti, dopo qualche tempo, il cambiamento di Piero, impercettibile e progressivo. Notarono che avveniva con lei. E per lei. Silenzioso, equilibrato e convinto, oltre che convincente. Gli dissero, e si dissero, scherzando, che stava decisamente invecchiando. Qualcuno provò anche a parlarne direttamente con lui, in privato, quando la cosa fu evidente a tutti. La risposta di Piero fu enigmatica e discreta: l’amore può cambiare. Poi ci si abituò a questa nuova veste dell’amico, che pure restava fiero e dignitoso. E si cominciò a sorridere del fatto, quando la novità divenne consuetudine. Quando l’interesse di tutti tornò a essere tranquillità. Abitudine rassicurante cui fare riferimento.

Quindi il fulmine a ciel sereno.
Poche telefonate per radunare gli amici a casa di Mario, il fratello maggiore di Gisella. «Corri! – l’invito angosciato - Ti aspetto a casa mia! Non posso spiegarti ora».
L’ultimo ad arrivare trovò gli altri in piedi, nel salone; qualcuno in lacrime silenziose, i visi stravolti. Un’atmosfera di piombo. Al centro del gruppo, nel mezzo della sala, Gisa, seduta, lo sguardo inespressivo, stava dicendo: «…Non ne potevo più. All’inizio era un amore indescrivibile. Strano. Unico. Bellissimo. Ma succede a tutti, così. Forse un anno è durata, la cosa. Poi i caratteri sono venuti a galla. Ed era una discussione continua. Litigavamo su tutto. Su tutto. Dopo due anni, ho minacciato di lasciarlo; di andarmene, e lui è cambiato. Cioè ha deciso di cambiare. Per amore mio, diceva. Per amore mio… Mai più una critica; mai un diverbio; mai un dissenso, un'impuntatura, un’opinione diversa. Mai più. Per me è stato peggio di prima. Una sorta di punizione. Un incubo. Ho cercato di fargli capire, a quel punto, che stava diventato noioso. Lui, nulla: nessun cambiamento. Diceva di sì. Sempre di sì. Accettava tutto. Ho cercato, di stimolarlo. Di fare in modo che tornasse a dire la sua, su qualcosa; che si esprimesse. Più di una volta. L’ho provocato. L’ho insultato. Nulla. Ho provato anche a ingelosirlo, per scuoterlo. Lui sempre uguale, però. Sempre dolce e comprensivo. Attento e consenziente. In qualsiasi occasione. E calmo. Sempre calmo. Sereno e calmo. Mi sentivo un’incapace totale. Ogni litigio era mio; ogni decisione era mia; ogni sbaglio era mio. Senza che lui dicesse mai una parola fuori posto, o perdesse mai la calma; senza che criticasse mai. Senza una sfuriata della sue, mai. Ve le ricordate, no? Non più una contraddizione; nulla! Gli ultimi tempi io non dormivo più, se non con i sonniferi. Mi sembrava di impazzire, ogni volta che lo sentivo rientrare in casa. Avevo voglia di scappare. Ho pianto da sola ogni lacrima che avevo. E poi la rabbia. La rabbia. Solo rabbia. Alla fine, la rabbia. Ieri sera, si era appena addormentato, ho preso un coltello e l’ho ucciso».

*

Il referto autoptico ha stabilito che la morte di Piero è stata causata da due delle sedici coltellate che l’assassino ha inferto con furia inconsulta: le due che hanno raggiunto direttamente il cuore.
Non è tutto.
Il referto rivela che, poche ore prima di essere ucciso, Piero aveva ingerito un intero flacone di barbiturici, con l’inequivocabile intento di togliersi la vita. La morte per i barbiturici sarebbe, comunque, sopraggiunta di lì a poco. Si presume che non abbia sofferto e che per effetto dei farmaci non si sia accorto di nulla.
Il flacone vuoto è stato ritrovato in una delle scarpe del defunto, ordinatamente riposte prima di coricarsi. Le uniche impronte digitali rinvenute su di esso sono quelle della vittima.
Il giorno successivo è giunta al loro domicilio una raccomandata, scritta da Piero (conferma il perito) due giorni prima. Conteneva il seguente messaggio, vergato in stampatello senza alcun segno di interpunzione:

Non si può essere più fedeli ai propri principi Piero