domenica 1 agosto 2010

Tredici - Coffee shop





Coffee shop




Breakfast

 Rio de Janeiro, 18 novembre 1997

L’hotel Meridien di Copacabana è un grattacielo di marmo e lunghi vetri scuri, che si staglia inconfondibile sull’Avenida Atlantica, di fronte all’oceano. Il suo coffee shop, al piano terra, è rinomato per la qualità del breakfast. Un buffet scenografico, ricco di ogni tipo di frutta freschissima, non solo tropicale. Prodotti da forno fragranti, pane, dolci, croissant. Yogurt e bevande. Ma anche uova, pancetta, affettati e carni per gli europei, che il fuso orario conduce qui nel momento in cui, di norma, pranzerebbero.

Sono sceso alle 6:00, orario di apertura. Mi piace leggere da solo, a mente fresca, con un po’ di caffé, mentre il personale finisce silenziosamente di allestire. Il lavoro ritmato di chi non si cura di me mi fa sentire protetto. Adesso, trascorsa un’ora di quiete, la sala si sta riempiendo e la mia lettura è stata via via ammutolita dal chiacchiericcio crescente. Frammenti di conversazioni, senza contesto, penetrano nella mia attenzione più di quanto farebbe un rumore. Anche il via-vai incostante di persone tra i tavoli interrompe i pensieri. Ascolto il tintinnio delle stoviglie. Cerco un mio ritmo interiore. Poi desisto. Decido di scrivere e di prendere ancora caffé. Fuori è una mattina grigia e chiarissima, molto calda.

Arrivano numerosi, sia uomini di affari che turisti. Salutano. Scelgono un tavolo. Poi si mischiano e si accalcano al buffet, nel centro della sala. I primi sono incollati nei loro abiti di circostanza, impropriamente scuri vista la latitudine, e l’ora del giorno. Le loro camicie azzurrine si scompongono appena nei movimenti lenti, e studiati, che accompagnano il cibo alla bocca. Scambiano parole serrate di lavoro, monotone, sommesse; pianificano gli incontri della giornata; tirano somme. Raccontano impressioni, in cui intimamente cercano strategie. Hanno sguardi seri, concentrati sui concetti. I loro sorrisi, quando il caso, sono appena accennati. Ammiccano a una consapevolezza esperta, nota e taciuta. Qualcuno di loro, da solo, legge con attenzione pagine di quotidiani internazionali. Un altro congiunge le mani con la forchetta davanti alla bocca, i gomiti sul tavolo, e guarda fuori dai vetri finendo il boccone su pensieri lontani. Hanno tutti un’attitudine assorta, leggermente ripiegata sul sé, forse un po’ mesta ma serena. Sembra distacco ed è solo abitudine. È la loro quotidianità. Vivono così un ritmo ordinato.
Cui forse anelano quando sono a casa.

I turisti sono poco vestiti, in colori sgargianti. Affaticati dalla novità, mimano gesti che sembrino adatti all’ambiente. Vanno e rivengono dai tavoli, con piatti stracolmi di cibo. La loro curiosità non assaggia, non osserva: sfrutta intanto l’occasione. Si chinano ora qui ora là per una frase allusiva, un ammiccamento, una grassa risata con un compagno seduto: un’enfasi che denuncia il loro essere “fuor d’acqua”. Un latente stress. Aritmia. Quasi tutte le conversazioni, anche nei rapidi incontri da e per il buffet, alludono al tempo un po’ incerto; al sole che stenta a mostrarsi. Accompagnano le parole con sguardi preoccupati; indicano le vetrate, verso la Avenida Atlantica, e la spiaggia che inizia a riempirsi. Trapela un’esigenza di successo, di abbronzatura, di divertimento. Pochi tra loro hanno la pelle abituata a qualche sole. I più sono candidi. Odorano già di creme solari, profumo fruttato di bruciatura estiva. Commentano i disagi del fuso orario, prezzo del paradiso. La veglia notturna sgomenta sempre un po’ chi non sia abituato ai cambi di latitudine.

Poco lontano da me, seduta a un tavolo rotondo con altre cinque persone, una corpulenta signora francese critica tutto. L’odore di umido nelle stanze; l’aria condizionata troppo forte; le tende parasole che non chiudono bene e il sole dell’alba che, già così forte, l’ha svegliata anzitempo; l’assenza di un qualsiasi canale tv in francese; la scarsità degli asciugamani; il colore arancione della sopraccoperta del letto…  La sua voce non alta, ma penetrante, richiama attenzione. La signora tace solo per mangiare. Dopo ogni boccone rovescia una mano e si netta i denti con l’unghia del mignolo disteso, mentre i suoi occhi lanciano sguardi ora a un commensale ora all’altro, seguendo la conversazione. Quando abbassa di nuovo lo sguardo sul piatto, alla ricerca di un’altra vittima, meccanicamente strofina il mignolo sulla tovaglia di fianco al piatto, in un senso e nell’altro.
Alla fine della sognata vacanza lei, come molti, sarà contenta di tornare a casa.
E allora, forse, farà racconti fantastici.




Lunch

Mosca, 22 settembre 1988 – Hotel Cosmos

Indugiamo nella hall, davvero sterminata, come due puntini nell’universo. Fa troppo freddo per pensare di uscire e siamo stanchi della notte di lavoro. Questa è la nostra prima volta a Mosca, non sapremmo dove andare: l’albergo è decentrato; dovremmo prendere la metro, poi – giunti in centro – cercare, con la difficoltà e dubbi di essere degli europei “oltre cortina”. Qualcuno ci ha detto che tutti gli occidentali vengono seguiti, nei loro spostamenti. Insomma… Guardiamo fuori dalle vetrate e decidiamo di pranzare in albergo. L’avventura può aspettare, l’appetito no.

Chiediamo dove sia il coffee-shop. Ci dicono che c’è un ristorante e indicano una doppia porta a vetri smerigliati aperta solo per metà, dall’altro lato del cosmo. Traversiamo la hall; a metà ci fermiamo a evitare il codazzo di mogli di un emiro saudita, in fila indiana, ma passiamo prima dei servitori con le valigie. Raggiungiamo la porta ed entriamo. Anche la sala da pranzo è molto grande, piena di tavoli rotondi, un centinaio almeno, disposti in bell’ordine e perfettamente apparecchiati. Due giganteschi lampadari di cristallo illuminano il tutto di una luce un po’ smorta, da almeno 12 metri di altezza. Solo due dei tavoli sono occupati: uno a destra, a metà della sala, da una coppia di mezz’età. Dall’altro lato del ristorante, due ragazze.

Ci si fa subito incontro un cameriere in giacca bianca e chiede se abbiamo prenotato. Il suo inglese è stentato. No, rispondiamo. Non sapevamo si dovesse. «Spiacente» fa quello, «il ristorante è completo». Sono le 13:30. Lo guardiamo perplessi e accenniamo alla sala vuota. Gentile ma fermo, il cameriere ribadisce «Il ristorante è completo». Pietro si volta verso di me e sussurra: «Aspetta. Voglio provare così». S’infila una mano in tasca e tira fuori un biglietto da 10 dollari americani. «Abbiamo fame» dice. «Solo uno spuntino. Non ci fermiamo molto». Mentre parla, appoggia discretamente la mano con il biglietto di banca all’avambraccio del cameriere. Quello abbassa lo sguardo. Poi si guarda intorno rapidamente, fa sparire la banconota e ci fa cenno di seguirlo.
Mentre andiamo, Pietro mi guarda e mi strizza un occhio.

Il cameriere indica un tavolo da otto, al centro della sala, e ci fa sedere uno di fronte all’altro. Alle spalle di Pietro, posso vedere la coppia di mezz’età. Lui vede le ragazze, dietro di me. Prendiamo il menù e cominciamo a leggerlo. Fortunatamente è scritto anche in inglese. Alzo la testa e chiedo del pollo arrosto con contorno di cavolini di Bruxelles. Il cameriere mi dice che purtroppo il pollo è terminato. Pietro chiede una zuppa di fagioli, ma il cameriere – scusandosi – fa presente che la zuppa quest’oggi non è disponibile. Allora dirottiamo su montone e patate, ma per la terza volta il cameriere, impassibile, ci comunica che il montone non c’è. Guardo Pietro. Lui mette una mano in tasca e restituisce il menù al cameriere dopo avervi infilato una banconota da 5 dollari: «Ci dica lei cosa possiamo mangiare». Il cameriere prende il menù, dice ok (dice proprio “ok”), e sparisce.

A quel punto, la coppia di mezz’età si alza, si avvicina, e chiede il permesso di sedersi al nostro tavolo. Dicono di essere di Leningrado. Lui è vestito di grigio, azzimato; ha occhiali da vista spessi e scuri; sembra un funzionario di partito. Ricorda vagamente il generale polacco Jaruzelski. Lei si presenta come la sua interprete. Parla un ottimo inglese. Dicono di essere marito e moglie. Probabilmente lo sono. Iniziamo una conversazione sobria e formale, ma le loro domande su chi siamo, e cosa facciamo lì, portano il peso ineffabile dell’indagine, oltre che della semplice personale curiosità. Le ascolto con un fondo di diffidenza e rispondo sempre consultando gli sguardi di Piero.

Siamo italiani, sì. Di Roma. Sì, proprio Roma, bellissima città. Siamo qui per lavoro: assistenti di volo per la compagnia aerea italiana. È la prima volta che veniamo a Mosca. Cosa pensiamo della Russia? Non sapremmo rispondere: siamo curiosi. Cosa si dice della Russia nel nostro paese? Tante cose, ma essere qui ci darà modo di avere finalmente un’idea più personale. No, non conosciamo nessuno, né a Mosca né in Russia. Quanti giorni resteremo? Fino all’arrivo del prossimo aereo: tre o quattro. Dove pensiamo di andare? Be’, certamente a vedere la Piazza Rossa, la Chiesa di S. Basilio. Se riusciamo, anche al Bolschoi, per assistere a una rappresentazione. Sì, la nostra compagnia ci lascia la libertà di girare. I due parlottano a voce bassa, prima che lei pronunci le domande che l’uomo, evidentemente, le suggerisce. Ascoltate le risposte, lui ci guarda e accenna un sorriso. Sono compiti e gentili.

Il loro contegno comincia a scomporsi dopo una decina di minuti. Qualcosa sembra renderli leggermente inquieti, come un’urgenza. Il cibo non arriva. Il ritardo del servizio è oramai eccessivo. L’uomo si gira ripetutamente verso le cucine. Parlotta con la donna, a voce bassa, e torna a voltarsi, osservando rapidamente anche il resto della sala. Poi, dopo un attimo di silenzio,  sussurra più piano qualcosa.
Sì, il nostro lavoro prevede anche dei viveri confezionati, per ogni evenienza.
Be’, parmigiano, cioccolata fondente, tonno. Qualche volta prosciutto.
Gli occhi dei due si illuminano al pensiero della cioccolata fondente e del parmigiano. Mi sento a disagio. L’uomo suggerisce, vista la lentezza del servizio, che noi si vada a prendere almeno il parmigiano. La donna, nel pronunciare la frase, un po’ si vergogna, un po’ spera, un po’ sorride all’idea. Non so come comportarmi. Pietro neanche. Alla fine diciamo che sono materiali forniti per eventuali emergenze; non è previsto che noi li si adoperi in situazioni in cui non vi sia un’effettiva necessità.
I due non insistono, ma sono evidentemente delusi. Assumono nuovamente il tono contenuto di inizio conversazione. Ringraziano. Si alzano e ci stringono la mano. Dopodichè escono speditamente dal ristorante senza voltarsi, né parlare tra loro.

Piero ed io ci guardiamo, stupiti. Il cameriere rientra in sala con due piatti in mano, seguito da un altro cameriere, più giovane, che porta il pane e due bottiglie: una di cognac e l’altra di champagne, e questo ci distrae dai pensieri. Mangiamo caviale rosso e salmone affumicato. È tutto. Dosi abbondanti. Guarnizione di burro un po’ rancido, erba cipollina e pane nero. Beviamo cognac. Quello che il menù definisce champagne è in realtà un moscato, o meglio, un vino scadente, zuccherato, caldo e imbevibile.

Quando finiamo di mangiare, il cameriere ci regala il suo primo e unico sorriso invitandoci, se vogliamo, a dividere il tavolo con le due belle ragazzotte sovietiche, che sono ancora lì e ci fanno la posta da un’ora. Al nostro cortese rifiuto, ci porge il conto. Per un piatto freddo e un bicchiere di cognac paghiamo la cifra, esorbitante qui, di 23 rubli a persona.



Dinner

Accra (Ghana), 14 marzo 2005 - Ore 18:30

Calata la sera, non resisto alla tentazione di procurarmi un club sandwich e una birra gelata. Ho scelto un tavolo laterale, singolo, di fianco alle vetrate. La sala del coffee-shop dello Sheraton è illuminata in maniera soffusa, sui lati, e da dietro il bancone del bar. Molta luce è assorbita dal soffitto basso, dagli arredamenti scuri in ebano tribale e dai colori intensi delle pareti: ocra scuro, rosso e marrone. Vi è un’aria spessa, umida di legno, come canforata.

Intorno a me quasi solo europei, per lo più in camicia chiara e cravatta, con i loro computer portatili, i telefoni satellitari, i sigari e i resoconti da sbrigare a fine giornata. Al centro della sala, una ragazza nera dalle forme procaci ma non attraenti, sola al suo tavolo, mi guarda quando alza gli occhi dal cellulare. Di fronte a me, a un tavolo più vicino, un ragazzo biondo, capelli corti, non più di venti anni, curvo sulla sedia, si sfila la cravatta mentre accende il portatile. Ha un’aria serena in viso, che però diventa subito dura quando un cameriere di colore, appressandosi, domanda per chi sia la birra che porta sul vassoio. «Io ne ho ordinata una» lo apostrofa seccamente, in un inglese che sa di Olanda. Sia la domanda che la risposta vestono l’abito formale del pregiudizio.
La popolazione dei coffee-shop equatoriali è ovunque la stessa. Conferisce a questi locali la caratteristica di luoghi di solitudine. Di introversione sassone. Il turista che passa non se ne accorge.

Col sopraggiungere dell’ora di cena, la sala va riempiendosi. Comincia a vedersi qualche donna bianca. Generalmente si tratta di nordiche che, quando non siano in piccolo gruppo per diletto, accompagnano il business dei mariti, lanciando sguardi languidi e annoiati al resto dell’ambiente. Le loro carnagioni sono chiare e burrose. I loro gioielli suonano.
Fuori dalle vetrate, la sagoma verde opale della piscina illuminata si staglia nell’oscurità, dipingendo di riflessi tonali gli abiti chiari di un’altra razza di avventori tropicali; europei anch’essi, ma non dediti agli affari. Sono quelli che si dedicano alle presunte delizie del “traveller sfaccendato e danaroso”. Abiti bianchi; accessori d’oro; sorriso tra l’estasiato e il malizioso; abbronzatura intensa; preservativo in tasca avvolto da rotoli di banconote.

Il ragazzetto davanti a me ha ora un compagno di giochi, anche lui computerizzato. Accendono insieme, dividono, e sembrano gustare, un unico Avana di medie dimensioni, forse un Partagas, evidentemente stonato nelle loro mani. Non lo sanno fumare; men che meno maneggiare, seppure con esso riempiano l’aria di gesti. E il loro ego di età.

E’ arrivato il sandwich. Mi verso la birra, attento a fare poca schiuma. Inizio a mangiare. Il club sandwich è un esercizio di disciplina. Soddisfa solo i più bravi. Bisogna resistere alla tentazione di addentarlo, come un qualsiasi panino: si scompone, al pari di un uomo o una donna senza classe. E finisce presto. Non solo: lascia una sensazione grassa di opulenza. Bisogna invece mangiarlo a piccoli bocconi, e usare le posate. Intervallare spesso con le patatine a corredo, e con la birra. Allora regala i suoi pregi; non disgusta; rivela dignità. Ho appetito. Il piatto è gradevole; forse un po’ sciapo. Quando allontano il piatto vuoto, il cameriere si avvicina solerte e mi domanda se desidero altro. Ordino un caffè.

Finisco lentamente la birra, prendendo appunti e fumando, prima di tornare alla 368 e fare la valigia per il volo. Sarà notte in bianco. La ragazzona nera si è unita alla solitudine di un attempato inglese, che prima era seduto più in là. Ora sorridono entrambi, preparando la serata.



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