venerdì 2 luglio 2010

Dodici - Segreti




Segreti



Da piccola era vivacissima e allegra. Le piaceva giocare sopra i fogli larghi di un giornale spalancato sul letto matrimoniale. Il cricchiolio improvviso e secco dei suoi stessi movimenti bruschi la faceva ammattire: girava su sé stessa con scatti ripetuti, fulminei, a caccia di fantasmi.

Al minimo rimestare di stoviglie, abbandonava ogni occupazione e correva come un'ossessa per il lungo corridoio di casa, fino alla cucina. Abitudine che poi ha mantenuto, seppure con un trotterello più adulto e compassato. Negli ultimi tempi aspettavamo pazientemente, a lungo, prima di vedere il suo muso spuntare nella luce della porta di cucina. Ma non demordeva.

Non ha mai parlato molto. In lei prevaleva la discrezione di chi non ha un "pedegree".
I discorsi maggiori li ha sempre tenuti alla vista di una fetta di fegato, o prima di acciambellarsi su un letto. Ma i suoi occhi parlavano il silenzio. Con essi criticava, blandiva, rispondeva, annuiva, ammoniva, esortava. O chiedeva. Quando la chiamavi, nominandola con affetto, li socchiudeva fino a farne due fessure, prima di inarcare il collo sotto una carezza.

Era discreta, educata, elegante, pulita e silenziosa.
Era decisa, affettuosa e tenera.
Era calda sui piedi, in fondo al letto. O sulle ginocchia, mentre guardavi la televisione, a sera.
Partecipava.
Solo se qualcuno accendeva una sigaretta, si allontanava.

Ogni ora del giorno aveva per lei un angolo di casa, un tappetino o una sedia; un buco, un anfratto, un letto o un cuscino. Senza preferenze. Era sempre nell'angolo più ventilato, d'estate, quando l'afa incolla ogni cosa; dormiva con un punto di lingua rossa fuori dal nero dei baffi, per mantenere costante la temperatura corporea. Nelle sere fredde d'inverno, invece, si accoccolava sul marmo, a tre quarti del salone, là dove passavano i tubi del riscaldamento.
Impiegammo anni a capirlo.

Era sempre il primo «Buongiorno», al mattino; un allegro e gentile birignao dalla sedia, di fianco alla porta di cucina, per chiunque di noi entrasse, assonnato, alla ricerca di caffè.

Era egoista e ruffiana, nonché ladra e opportunista. Sapeva i nostri limiti e come superarli. Non si lasciava scappare quasi mai una cartata di carne, o di affettato, abbandonata incautamente sul tavolo della cucina. Ma si guardava bene da tentare il colpo, se solo percepiva un po' di fermento tra noi, la fretta di un preparativo concitato o un po' di nervosismo nell'aria. Puniva solo le nostre vere distrazioni; che so io, l'innocenza di una telefonata improvvisa, che ti fa lasciare le cose a metà e raggiungere di corsa il telefono di casa. Scoperto il furto, facevamo voce grossa e sgomenta. Lei, sapendo, a quel punto scappava a nascondersi. Ma lasciava sempre in noi l'impalpabile vuoto di un vago scorno: l'averci previsto.

Era signorile e snob. Preferiva i divani di pelle a qualsiasi coperta di lana. La sera, noi tutti intorno a un film, ti chiedeva con un colpetto di zampa di lasciarle il dondolo di vimini, al centro tra i divani, e quel cuscino di seta sul quale acciambellarsi lentamente, soddisfatta della nostra considerazione.
Era solitaria e riflessiva. A volte avresti giurato di vederla pensare con malinconia alla libertà, e al brivido oltre il terrazzo, lo sguardo perso nel vuoto di una finestra aperta.

Era tutto questo.
O forse era solo la nostra gattina, come i gatti che migliaia di esseri umani hanno per casa e amano. Noi, come tutti, credevamo fosse unica, e alla sua rassicurante naturalezza raccontavamo segreti.

Sta di fatto che da ieri non c'è più.
E questa cosa ci fa marcire di rabbia e di dolore.
E accresce le nostre solitudini.


Roma, 23 giugno 1989