venerdì 31 dicembre 2010

Diciassette - Omega




Omega




Buonasera a tutti.
La notizia sta ora facendo il giro del mondo a velocità frenetica.
Era apparsa un mese fa in quei servizi leggeri, di costume, che chiudono i notiziari. E’ stata poi ripresa dalle pagine culturali dei maggiori quotidiani. Quindi approfondita dai settimanali patinati e nei contenitori televisivi generalisti, che vanno in onda nel pomeriggio.
Ma ovunque trattata con un sorriso di leggerezza e disincanto.

Una piccola equipe di studiosi accreditati, due filosofi, due storici, un astrofisico, un matematico e un informatico, negli ultimi anni, ha studiato tutte le notizie e le indicazioni che facciano riferimento alla fine del mondo. Laiche, religiose, mistiche o scientifiche che fossero, gli studiosi le hanno analizzate tutte e valutate. Hanno infine inserito le date risultanti – se disponibili, o ipotizzabili con una approssimazione soddisfacente – in un calcolatore affinché questo le elaborasse.
Dopo giorni di lavoro ininterrotto, il cervello elettronico ha finalmente prodotto due complessi algoritmi. Applicati alla data di nascita dell’universo, gli algoritmi, lunghe e impenetrabili stringhe di calcolo, hanno generato come risultante l’indicazione di una data ulteriore, che indicherebbe la fine assoluta del Tempo: il momento esatto in cui, con una dinamica simile al Big Bang, con la sua medesima rapidità istantanea (calcolabile in 3,5 secondi; a una velocità espressa da una cifra con più di cento zeri), l’Universo a noi noto imploderebbe in una parossistica contrazione, frutto dell’annullamento tra materia e antimateria, fino all’equilibrio di forze tra la concentrazione della massa e il vuoto. Fino al silenzio assoluto ed eterno. Alla quiete sospesa della statica senza fine concepibile.
Gli algoritmi sono due perché la data di nascita dell’universo, il cosiddetto Tempo Zero, cioè l’inizio del tempo come noi lo conosciamo, è stimato intorno a 14 miliardi di anni fa, con un’approssimazione di circa 200 milioni di anni. Si è reso necessario, quindi, un calcolo comparativo medio tra gli estremi dell’approssimazione, che desse una risultante più attendibile.

L’Omega, come è stata ribattezzata la data di fine del Tempo, risulta essere il giorno 2455562 del Calendario Astronomico, o Giuliano; il 31-12-7518 del Calendario Bizantino (che si fa iniziare dalla creazione del mondo); il 26-11-4647 del Calendario Cinese; il 24-1-1432 del Calendario Islamico; il 24-4-5771 di quello Ebraico. Oppure, per farla breve, il 31 dicembre dell’anno 2011 dell’era cristiana. A un anno esatto da oggi. È interessante notare incidentalmente come, dopo tanto complesso calcolo, questa data si avvicini molto a quella in cui il calendario dei Toltechi, 3000 anni prima di Cristo, ipotizzò la fine della quinta era cosmica, detta età dell’oro, e cioè il 21-12-2012. Ma tant’è.

Fin qui nulla di nuovo. O, almeno, nulla che non si sia già visto: l’uomo si è sempre interessato alle previsioni sul proprio futuro. L’esistenza, in sé, ha suscitato interessi, incertezze e timori, proprio in virtù della sua imponderabilità misteriosa. E le reazioni sono state via via più scettiche, rilassate e disilluse, mano a mano che le conoscenze diventavano più esatte, le teorie più ardite e le speculazioni più sofisticate. E divulgate. Il fatto è che, per quanto ci si ostini, non ostante ci si sia avvicinati enormemente alla comprensione dei meccanismi della vita e dell’universo, resta intatto e lontano l’enigma della vita, nella sua essenza prima e primigenia. Insoluto, il quesito sulla sua scaturigine e, soprattutto, sulla sua durata. La notiziola è quindi passata agli archivi con la leggerezza delle mille e mille altre previsioni simili, spesso futili, stratificate nella memoria degli uomini e mai realizzatesi, fino ad ora, in un’effettiva catastrofe totale e ultima.
È arcinota a tutti la favola di Pierino che gridava «Al lupo! Al lupo!».
Tuttavia, come è oramai noto, quattro giorni fa la piccola equipe di studiosi ha comunicato agli organi di informazione una lieve rettifica del calcolo. Per una maggiore attendibilità scientifica l’applicazione degli algoritmi è stata infatti replicata immediatamente su altri due elaboratori, gemelli del primo, affinché fosse ridotto al minimo il margine d’errore. Un po’ lo stesso criterio della pesata doppia, che si usa con i neonati. La correzione del dato, così ottenuta, è del tutto insignificante in termini astronomici, ma considerevole, se valutata dal punto di vista del nostro presente.
Già, perché la nuova data risultante, a questo punto, è fissata nel giorno 2455927 del Calendario Giuliano; cioè il 31-12-7519 di quello Bizantino; il 7-12-4648 di quello Cinese; il 5-2-1433 di quello Islamico o il 5-4-5772 di quello Ebraico.
Per noi è il 31-12-2010.
Oggi.

Inutile raccontare come, nei giorni seguenti l’annunciata correzione, il giornalismo di tutto il mondo si sia gettato a pesce su una tale notizia. E come lo stia facendo ancor di più in queste ore convulse. Non solo per riempire le pagine che solitamente, alla fine dell’anno, si aggrappano alle condizioni climatiche invernali, ai preparativi dei festeggiamenti, ai bilanci sportivi, alla condivisione tra i popoli.
Non solo.
Senza indagare se sia nato prima l’uovo o la gallina (ovvero, se sia stato il battage mediatico a scatenare reazioni sempre più diffuse, oppure le numerose e varie reazioni ad attirare i giornalisti), abbiamo riscontrato nel mondo intero un incremento esponenziale e frenetico di fenomeni di … preparazione all’evento. A ogni latitudine nota. Da parte di ogni tipo di comunità in tutte le regioni del mondo. Con una trasversalità che ha travolto ogni barriera ideologica politica o geografica sin qui esistente.
Con il pragmatismo che ci contraddistingue, esprimiamo tutta la nostra riprovazione per quanto sta accadendo. Soprattutto quando vediamo le immagini (diffuse sia dai Tg che da internet) delle varie comunità, religiose, settarie e sociali, composte di persone esaltate o invasate, che in ogni parte del mondo vanno radunandosi sempre più numerose in luoghi pubblici; praticando ciascuna i propri riti sociali, comunitari o religiosi.
Ci muove a compassione l’isteria che vediamo diffondersi a macchia d’olio, (un po’ come proviamo delusione e sconforto quando analizziamo ogni storica “isteria” - soprattutto alla luce dei risultati che ogni “rivoluzione” ha poi avuto sul nostro pianeta). Ci muove a compassione soprattutto l’idea che la superficialità umana, non ostante i progressi innegabili raggiunti in campo scientifico, religioso e filosofico, nei momenti di smarrimento etico non sia mai riuscita a sollevarsi da una sostanziale confusione tra la trascendenza e un tragico immanentismo, e resti comunque in balia di sé stessa, o di ciò che le viene propinato da chi detiene l’informazione.
Sarebbe lungo, e soprattutto doloroso, analizzare ora questo fenomeno.

Ci limiteremo a dire che, contro ogni tendenza dell’ultima ora, noi... non crediamo.
Non crediamo che stia per avvenire ciò che gli scienziati hanno ipotizzato. Non crediamo che invocare divinità, siano esse laiche, mistiche o religiose, possa – nel caso – modificare il nostro destino; né migliorare la nostra eventuale posizione in ciò che ci… aspetta dopo. Siamo assolutamente convinti che tanto sia accaduto fin qui, nella storia umana e dell’universo, e altrettanto accadrà da qui in poi.
Non credendo a questo imminente avvenimento, e inneggiando a un sano raziocinio, noi



giovedì 11 novembre 2010

Sedici - Tracce





Tracce




Sono un’Idea.
Già.
Un’Idea.
Un prodotto della logica che non si è ancora trasformato in azione.
Una potenzialità, quindi. O meglio: un insieme di potenzialità, legate tra loro da rapporti di concatenazione; e conseguenza.
Sono un’idea precisa: l’idea di una gravidanza. Una delle idee più istintive e complesse; evolutesi per prime nella testa degli uomini, sull’onda d’un meccanicismo che è tutt’ora, per certi versi, incomprensibile.
In ogni caso: sono l’idea della vita.
O meglio: l’idea di… “una” vita.
Oppure, anche, tutta la vita in un’idea… Ma non confondiamoci.

Sono appena balenata.
Non ho ancora un nome preciso. Potrei diventare Marta o Gianni, Angelo o Sara. Avere un corso, una storia, un destino realizzato e poi concluso.
Potrei.
E, pur senza un nome, la mia semplice presenza amplifica le consapevolezze di Rosa.

Rosa.
Il suo essere donna si fa completo, compiuto. Al solo pensiero di una possibile vita nell’interno del suo grembo, la giovane Rosa ha provato un senso sgomento e complesso di soddisfazione; di timore; di potenza. E importanza. Un’idea di bellezza. Quasi d’invincibilità, per certi versi; di atavico (ideale e intangibile) dominio sulla natura. S’è sentita finalmente accomunata all’archetipo della genesi umana; finalmente prossima al significato primordiale del suo esistere come donna.
Un’incredibile, e determinata, tenerezza.

Già solo per questo sono un principio potente. Positivo.
Sono un progetto. Anzi, un insieme di progetti.
Una molla istintiva che proietta il pensiero al futuro. E genera, a esplosione, altre idee, circostanziate e universali. Affetto. Cura. Alimentazione. Protezione. Crescita. Educazione. Sviluppo. Unione. Vita. Tempo. Anzianità. Caducità. Morte. Ricordo. Eternità…

In Rosa.
Perché è Rosa.

Il mio primo viaggio è già avvenuto.
Potrei definirla una migrazione. Un trasloco.
Anzi, restiamo in tema: un nuovo impianto.
Medesimo principio essenziale, medesimo concetto. Altra testa. Quella di Rocco.
Altro sesso. Altra vita. Altre esperienze, esigenze. Altra età.
«Ho cinque giorni di ritardo, Rocco. Potrei essere incinta…» 

Sono un’Idea. E null’altro.
Ma ho il potere enorme di interagire con la realtà. Di condizionarla.
D’interferire con la biologia. E di alterarla.

Rocco è in tumulto istintivo, dal mio arrivo. Il suo battito cardiaco si è intensificato, anche se lui non lo sa. Noterebbe, soffermandosi, solo una lieve pressione dietro lo sterno. Di fatto, invece, percepisce una generale modifica, sorda e indistinta; un’inquietudine di emozione e pensiero, febbrili. Una maturazione esplosiva. L’orgoglio e la paura. La forza. La dolcezza invincibile, che rende inutile, quasi sciocco, ogni suo muscolo potente; ogni possibile adrenalina. Il senso della parola “responsabilità” che prende vita; che proietta per la prima volta la sua valenza sul futuro, anziché limitarsi a precisare eventi finiti. L’istintiva difesa di un nucleo, che proprio da lui si aspetta riparo, calma e spinta. Gioia sottile; inconsueta, quella che avverte. Ma timore d’inadeguatezza improvvisa, anche.
Una diversa linea di contorno e proiezione del sé.
Il concetto del suo seme gli si rivela (repentino come un lampo) in tutta la sua forza: “Io. Nel corpo di Rosa”. Qualcosa che resta lì. Che per la prima volta si stacca e non “torna”. Diventa altro con altro. Futuro tangibile che congela all’improvviso l’esistenza stessa di Rocco, nella continuità incomprensibile dell’uomo. Lo colloca e lo ferma nella Storia.
Cristallizzazione evidente solo ora, solo così.
La preoccupazione, poi, per qualcosa di cui non afferra la portata intera, cui non sa attribuire contorni razionali immediati. Qualcosa che, per la prima volta, sfugge alla sua esperienza.
Tutto cambierebbe. Cosa cambierebbe? Oh, Rosa cambierebbe. Diventerebbe più debole, anzi, vulnerabile. Ma infinitamente più determinata. Più forte, quindi. Disperatamente forte.
«E io?»
Quanta forza viene erroneamente confusa con la debolezza!
Se solo riflettessimo meglio…

Ecco. Sono una semplice Idea. Fondamento primo. Archetipo. Verbum. Logos. Motore della realtà. Scaturigine indistinta di ogni azione. E di ogni suo contrario.
Già perché, in quanto Idea, incarno nella mia essenza l’identità stessa del mio opposto.
Solo ogni cosa che esiste, in quanto tale, può essere negata.  
Ecco che posso essere dubbio; sospetto; atroce condizionamento morale. Freno.
Dipende dai contesti. Dai punti di vista. Dipende dal terreno di coltura. Dalla cultura e le esperienze dell’animo in cui vado a cadere. O a sorgere.

Rocco non risponde. Non dice nulla.
Rosa ha una stretta allo stomaco. Il suo Rocco si entusiasma, di solito. Se qualcosa gli piace, esulta; e il suo volto si accende di gioia. Ora no. Non ha cambiato espressione. Un piccolo sorriso. E’ lì che guarda il vuoto. Sì, le ha messo una mano sul ventre, e quella mano è calda. Dio, come è calda la mano di Rocco sulla pancia!
Rapido, il pensiero di Rosa percorre il proprio universo relativo, in lungo e in largo. Lei sa. Lei già sa. Come avendo appreso una notizia scontata, attesa da sempre, nota in ogni sfumatura, Rosa sa – e di colpo vede chiaramente – cosa vuole; chi è; chi è stata e chi sarà, da ora in poi. La mano calda di Rocco non fa che sottolineare questa convinzione. Ne è il titolo e la costituzione.
Ma, dietro la mano, Rocco ancora non si vede. Non compare. È come trasparente. La sua mano è calda. La sua presenza assente. «Dove sei, Rocco?» vorrebbe chiedergli. Ma tace. Perché sa che le risposte indotte sono mezze verità, a volte menzogne. Mentre le convinzioni sgorgano, senza che nessuno le debba chiamare.

Rosa tace, e guarda Rocco.
Lui avvicina il viso. La bacia. Con l’altra mano le sfiora una guancia. Poi torna a guardare fuori dalla macchina e mette in moto. Una mano ancora sul ventre di lei. Lentamente guida la vettura fuori dal parcheggio del cinema.
Il lavoro che ha è buono. Ha iniziato da poco, ma ci sono prospettive e sembra stabile. Lui e Rosa possono affittare una casa; finalmente decidersi a vivere insieme. Famiglia. Nucleo. Ma Rosa, prima o poi, dovrebbe interrompere il proprio lavoro. Lui potrebbe chiedere di lavorare di più. Accettare quell’incarico, fino a lì rifiutato per evitare scocciature e fatica. Sì. Potrebbe accettarlo, ora. Per diventare padre. Per diventare uomo. Per garantire, proteggere, difendere e alimentare un futuro. Per condividere. Per Rosa e il suo delicato compito di madre.
Come sarebbe? Sì, come sarebbe avere un figlio? Prenderlo in braccio; giocarci; vederlo giocare e sorridere; o piangere; sentirlo respirare o tossire, la notte. Essere padre. Padre.

La macchina avanza lentamente, nella strada di notte.
Rosa guarda fuori dal suo lato. Vede i lampioni scorrere via. Tiene la mano di Rocco su di sé, e cerca di leggerla.
Rocco guarda davanti. Si ferma al semaforo rosso di una piazza vuota. Muove leggermente la mano e si volta verso Rosa. Si china di nuovo a baciarla. Questa volta più a lungo. Scatta il verde ma la macchina resta ferma lì, mentre i due si baciano. Senza una parola.

Sono un’Idea.
Già.
Solo un’idea, perché Rosa non è incinta. Ha un ritardo del ciclo mestruale, e le cellule di Rocco, in lei, sono già morte.
Ma, come ogni idea, lascio tracce incancellabili tra le umane cose.



venerdì 1 ottobre 2010

Quindici - Lo specchio





Lo specchio



È un’età rabbiosa
quella che nello specchio
vede riflesso il vecchio
reggere una mimosa.

D’autunno, il suo animo, stanco, stride,
di fronte alla natura che si sveglia.
Ogni colore, fermento, che lui vide
e non colse, è un richiamo; una voglia.

Arde della poesia
il soffio di voci mute,
viste scappare via
non appena venute.

Tarda l’epifania di ciò che conta:
la consapevolezza del mistero.
«Hai lasciato andare ciò che è vero,
per una felicità che fu presunta!».

Non ti resta che dirlo,
ora; che fu sbagliato:
quello che tu sei stato
non sapevi capirlo.

O forse amare l’idea che la gioia
altro non sia che un’eterna illusione;
che il rimpianto per una passione
sia lo strumento che vince la noia…

No, vecchio mio; sorridi!
Specchia la tua ricchezza
(non esiste amarezza
che vendetta non gridi).

Tu sei vivo, e devi darne conto
solo allo specchio, colmo d’emozioni.
Picaresco, per tutte le stagioni,
leggi la vita tua come un racconto.

Al ragazzo che fosti
dire non devi nulla;
l’inesperienza è culla
dolce, di prezzi imposti.

Vedi, invece, riflessa, stamattina
sola l’idea che colora la vita:
è sempre il domani a dirti in sordina
che l’uomo arde d’energia infinita.

Felicità è mistero
inconscio, di scoperta;
sguardo sempre sincero
verso una porta aperta.

Nulla ti toglie più ciò che hai vissuto
e, in fondo, il risultato ha poco conto.
La meta? Camminare senza sconto
è la ricchezza vera, in assoluto.



lunedì 6 settembre 2010

Quattordici - Racconti minimi






Racconti minimi






La formica, operosa, cammina.
Finché il fato non si fa formichiere.


*


Nel silenzio di casa, il ticchettio della sveglia.
Sommesso.
Ovattato.
Ossessivo.
Vengo salvato dal brontolare di caffettiera.


*


Non esiste una forza capace di rompere il legame che abbiamo con le persone veramente amate. Qualsiasi oscura energia irrazionale, qualsiasi perversa diavoleria dell’inconscio, ogni arma triste dell’intelletto è spuntata e inefficace, contro l’amore; quell’unica e irripetibile attività dell’animo, che si rinvigorisce e si rinsalda sempre più a ogni nuova ferita.


*


«Che giornataccia!» commenta lo sposo di sfuggita, mentre lo saluto prima di entrare in chiesa.


*


Nell’esposizione delle sue idee, e del suo pensiero, L. è rigido come un argine.
Che l’acqua prima o poi sommergerà.


*


Imbrunire. Nebbia.
Le figure delle case sul fiume diventano ombre scure, indistinte, come certi ricordi d’infanzia.






domenica 1 agosto 2010

Tredici - Coffee shop





Coffee shop




Breakfast

 Rio de Janeiro, 18 novembre 1997

L’hotel Meridien di Copacabana è un grattacielo di marmo e lunghi vetri scuri, che si staglia inconfondibile sull’Avenida Atlantica, di fronte all’oceano. Il suo coffee shop, al piano terra, è rinomato per la qualità del breakfast. Un buffet scenografico, ricco di ogni tipo di frutta freschissima, non solo tropicale. Prodotti da forno fragranti, pane, dolci, croissant. Yogurt e bevande. Ma anche uova, pancetta, affettati e carni per gli europei, che il fuso orario conduce qui nel momento in cui, di norma, pranzerebbero.

Sono sceso alle 6:00, orario di apertura. Mi piace leggere da solo, a mente fresca, con un po’ di caffé, mentre il personale finisce silenziosamente di allestire. Il lavoro ritmato di chi non si cura di me mi fa sentire protetto. Adesso, trascorsa un’ora di quiete, la sala si sta riempiendo e la mia lettura è stata via via ammutolita dal chiacchiericcio crescente. Frammenti di conversazioni, senza contesto, penetrano nella mia attenzione più di quanto farebbe un rumore. Anche il via-vai incostante di persone tra i tavoli interrompe i pensieri. Ascolto il tintinnio delle stoviglie. Cerco un mio ritmo interiore. Poi desisto. Decido di scrivere e di prendere ancora caffé. Fuori è una mattina grigia e chiarissima, molto calda.

Arrivano numerosi, sia uomini di affari che turisti. Salutano. Scelgono un tavolo. Poi si mischiano e si accalcano al buffet, nel centro della sala. I primi sono incollati nei loro abiti di circostanza, impropriamente scuri vista la latitudine, e l’ora del giorno. Le loro camicie azzurrine si scompongono appena nei movimenti lenti, e studiati, che accompagnano il cibo alla bocca. Scambiano parole serrate di lavoro, monotone, sommesse; pianificano gli incontri della giornata; tirano somme. Raccontano impressioni, in cui intimamente cercano strategie. Hanno sguardi seri, concentrati sui concetti. I loro sorrisi, quando il caso, sono appena accennati. Ammiccano a una consapevolezza esperta, nota e taciuta. Qualcuno di loro, da solo, legge con attenzione pagine di quotidiani internazionali. Un altro congiunge le mani con la forchetta davanti alla bocca, i gomiti sul tavolo, e guarda fuori dai vetri finendo il boccone su pensieri lontani. Hanno tutti un’attitudine assorta, leggermente ripiegata sul sé, forse un po’ mesta ma serena. Sembra distacco ed è solo abitudine. È la loro quotidianità. Vivono così un ritmo ordinato.
Cui forse anelano quando sono a casa.

I turisti sono poco vestiti, in colori sgargianti. Affaticati dalla novità, mimano gesti che sembrino adatti all’ambiente. Vanno e rivengono dai tavoli, con piatti stracolmi di cibo. La loro curiosità non assaggia, non osserva: sfrutta intanto l’occasione. Si chinano ora qui ora là per una frase allusiva, un ammiccamento, una grassa risata con un compagno seduto: un’enfasi che denuncia il loro essere “fuor d’acqua”. Un latente stress. Aritmia. Quasi tutte le conversazioni, anche nei rapidi incontri da e per il buffet, alludono al tempo un po’ incerto; al sole che stenta a mostrarsi. Accompagnano le parole con sguardi preoccupati; indicano le vetrate, verso la Avenida Atlantica, e la spiaggia che inizia a riempirsi. Trapela un’esigenza di successo, di abbronzatura, di divertimento. Pochi tra loro hanno la pelle abituata a qualche sole. I più sono candidi. Odorano già di creme solari, profumo fruttato di bruciatura estiva. Commentano i disagi del fuso orario, prezzo del paradiso. La veglia notturna sgomenta sempre un po’ chi non sia abituato ai cambi di latitudine.

Poco lontano da me, seduta a un tavolo rotondo con altre cinque persone, una corpulenta signora francese critica tutto. L’odore di umido nelle stanze; l’aria condizionata troppo forte; le tende parasole che non chiudono bene e il sole dell’alba che, già così forte, l’ha svegliata anzitempo; l’assenza di un qualsiasi canale tv in francese; la scarsità degli asciugamani; il colore arancione della sopraccoperta del letto…  La sua voce non alta, ma penetrante, richiama attenzione. La signora tace solo per mangiare. Dopo ogni boccone rovescia una mano e si netta i denti con l’unghia del mignolo disteso, mentre i suoi occhi lanciano sguardi ora a un commensale ora all’altro, seguendo la conversazione. Quando abbassa di nuovo lo sguardo sul piatto, alla ricerca di un’altra vittima, meccanicamente strofina il mignolo sulla tovaglia di fianco al piatto, in un senso e nell’altro.
Alla fine della sognata vacanza lei, come molti, sarà contenta di tornare a casa.
E allora, forse, farà racconti fantastici.




Lunch

Mosca, 22 settembre 1988 – Hotel Cosmos

Indugiamo nella hall, davvero sterminata, come due puntini nell’universo. Fa troppo freddo per pensare di uscire e siamo stanchi della notte di lavoro. Questa è la nostra prima volta a Mosca, non sapremmo dove andare: l’albergo è decentrato; dovremmo prendere la metro, poi – giunti in centro – cercare, con la difficoltà e dubbi di essere degli europei “oltre cortina”. Qualcuno ci ha detto che tutti gli occidentali vengono seguiti, nei loro spostamenti. Insomma… Guardiamo fuori dalle vetrate e decidiamo di pranzare in albergo. L’avventura può aspettare, l’appetito no.

Chiediamo dove sia il coffee-shop. Ci dicono che c’è un ristorante e indicano una doppia porta a vetri smerigliati aperta solo per metà, dall’altro lato del cosmo. Traversiamo la hall; a metà ci fermiamo a evitare il codazzo di mogli di un emiro saudita, in fila indiana, ma passiamo prima dei servitori con le valigie. Raggiungiamo la porta ed entriamo. Anche la sala da pranzo è molto grande, piena di tavoli rotondi, un centinaio almeno, disposti in bell’ordine e perfettamente apparecchiati. Due giganteschi lampadari di cristallo illuminano il tutto di una luce un po’ smorta, da almeno 12 metri di altezza. Solo due dei tavoli sono occupati: uno a destra, a metà della sala, da una coppia di mezz’età. Dall’altro lato del ristorante, due ragazze.

Ci si fa subito incontro un cameriere in giacca bianca e chiede se abbiamo prenotato. Il suo inglese è stentato. No, rispondiamo. Non sapevamo si dovesse. «Spiacente» fa quello, «il ristorante è completo». Sono le 13:30. Lo guardiamo perplessi e accenniamo alla sala vuota. Gentile ma fermo, il cameriere ribadisce «Il ristorante è completo». Pietro si volta verso di me e sussurra: «Aspetta. Voglio provare così». S’infila una mano in tasca e tira fuori un biglietto da 10 dollari americani. «Abbiamo fame» dice. «Solo uno spuntino. Non ci fermiamo molto». Mentre parla, appoggia discretamente la mano con il biglietto di banca all’avambraccio del cameriere. Quello abbassa lo sguardo. Poi si guarda intorno rapidamente, fa sparire la banconota e ci fa cenno di seguirlo.
Mentre andiamo, Pietro mi guarda e mi strizza un occhio.

Il cameriere indica un tavolo da otto, al centro della sala, e ci fa sedere uno di fronte all’altro. Alle spalle di Pietro, posso vedere la coppia di mezz’età. Lui vede le ragazze, dietro di me. Prendiamo il menù e cominciamo a leggerlo. Fortunatamente è scritto anche in inglese. Alzo la testa e chiedo del pollo arrosto con contorno di cavolini di Bruxelles. Il cameriere mi dice che purtroppo il pollo è terminato. Pietro chiede una zuppa di fagioli, ma il cameriere – scusandosi – fa presente che la zuppa quest’oggi non è disponibile. Allora dirottiamo su montone e patate, ma per la terza volta il cameriere, impassibile, ci comunica che il montone non c’è. Guardo Pietro. Lui mette una mano in tasca e restituisce il menù al cameriere dopo avervi infilato una banconota da 5 dollari: «Ci dica lei cosa possiamo mangiare». Il cameriere prende il menù, dice ok (dice proprio “ok”), e sparisce.

A quel punto, la coppia di mezz’età si alza, si avvicina, e chiede il permesso di sedersi al nostro tavolo. Dicono di essere di Leningrado. Lui è vestito di grigio, azzimato; ha occhiali da vista spessi e scuri; sembra un funzionario di partito. Ricorda vagamente il generale polacco Jaruzelski. Lei si presenta come la sua interprete. Parla un ottimo inglese. Dicono di essere marito e moglie. Probabilmente lo sono. Iniziamo una conversazione sobria e formale, ma le loro domande su chi siamo, e cosa facciamo lì, portano il peso ineffabile dell’indagine, oltre che della semplice personale curiosità. Le ascolto con un fondo di diffidenza e rispondo sempre consultando gli sguardi di Piero.

Siamo italiani, sì. Di Roma. Sì, proprio Roma, bellissima città. Siamo qui per lavoro: assistenti di volo per la compagnia aerea italiana. È la prima volta che veniamo a Mosca. Cosa pensiamo della Russia? Non sapremmo rispondere: siamo curiosi. Cosa si dice della Russia nel nostro paese? Tante cose, ma essere qui ci darà modo di avere finalmente un’idea più personale. No, non conosciamo nessuno, né a Mosca né in Russia. Quanti giorni resteremo? Fino all’arrivo del prossimo aereo: tre o quattro. Dove pensiamo di andare? Be’, certamente a vedere la Piazza Rossa, la Chiesa di S. Basilio. Se riusciamo, anche al Bolschoi, per assistere a una rappresentazione. Sì, la nostra compagnia ci lascia la libertà di girare. I due parlottano a voce bassa, prima che lei pronunci le domande che l’uomo, evidentemente, le suggerisce. Ascoltate le risposte, lui ci guarda e accenna un sorriso. Sono compiti e gentili.

Il loro contegno comincia a scomporsi dopo una decina di minuti. Qualcosa sembra renderli leggermente inquieti, come un’urgenza. Il cibo non arriva. Il ritardo del servizio è oramai eccessivo. L’uomo si gira ripetutamente verso le cucine. Parlotta con la donna, a voce bassa, e torna a voltarsi, osservando rapidamente anche il resto della sala. Poi, dopo un attimo di silenzio,  sussurra più piano qualcosa.
Sì, il nostro lavoro prevede anche dei viveri confezionati, per ogni evenienza.
Be’, parmigiano, cioccolata fondente, tonno. Qualche volta prosciutto.
Gli occhi dei due si illuminano al pensiero della cioccolata fondente e del parmigiano. Mi sento a disagio. L’uomo suggerisce, vista la lentezza del servizio, che noi si vada a prendere almeno il parmigiano. La donna, nel pronunciare la frase, un po’ si vergogna, un po’ spera, un po’ sorride all’idea. Non so come comportarmi. Pietro neanche. Alla fine diciamo che sono materiali forniti per eventuali emergenze; non è previsto che noi li si adoperi in situazioni in cui non vi sia un’effettiva necessità.
I due non insistono, ma sono evidentemente delusi. Assumono nuovamente il tono contenuto di inizio conversazione. Ringraziano. Si alzano e ci stringono la mano. Dopodichè escono speditamente dal ristorante senza voltarsi, né parlare tra loro.

Piero ed io ci guardiamo, stupiti. Il cameriere rientra in sala con due piatti in mano, seguito da un altro cameriere, più giovane, che porta il pane e due bottiglie: una di cognac e l’altra di champagne, e questo ci distrae dai pensieri. Mangiamo caviale rosso e salmone affumicato. È tutto. Dosi abbondanti. Guarnizione di burro un po’ rancido, erba cipollina e pane nero. Beviamo cognac. Quello che il menù definisce champagne è in realtà un moscato, o meglio, un vino scadente, zuccherato, caldo e imbevibile.

Quando finiamo di mangiare, il cameriere ci regala il suo primo e unico sorriso invitandoci, se vogliamo, a dividere il tavolo con le due belle ragazzotte sovietiche, che sono ancora lì e ci fanno la posta da un’ora. Al nostro cortese rifiuto, ci porge il conto. Per un piatto freddo e un bicchiere di cognac paghiamo la cifra, esorbitante qui, di 23 rubli a persona.



Dinner

Accra (Ghana), 14 marzo 2005 - Ore 18:30

Calata la sera, non resisto alla tentazione di procurarmi un club sandwich e una birra gelata. Ho scelto un tavolo laterale, singolo, di fianco alle vetrate. La sala del coffee-shop dello Sheraton è illuminata in maniera soffusa, sui lati, e da dietro il bancone del bar. Molta luce è assorbita dal soffitto basso, dagli arredamenti scuri in ebano tribale e dai colori intensi delle pareti: ocra scuro, rosso e marrone. Vi è un’aria spessa, umida di legno, come canforata.

Intorno a me quasi solo europei, per lo più in camicia chiara e cravatta, con i loro computer portatili, i telefoni satellitari, i sigari e i resoconti da sbrigare a fine giornata. Al centro della sala, una ragazza nera dalle forme procaci ma non attraenti, sola al suo tavolo, mi guarda quando alza gli occhi dal cellulare. Di fronte a me, a un tavolo più vicino, un ragazzo biondo, capelli corti, non più di venti anni, curvo sulla sedia, si sfila la cravatta mentre accende il portatile. Ha un’aria serena in viso, che però diventa subito dura quando un cameriere di colore, appressandosi, domanda per chi sia la birra che porta sul vassoio. «Io ne ho ordinata una» lo apostrofa seccamente, in un inglese che sa di Olanda. Sia la domanda che la risposta vestono l’abito formale del pregiudizio.
La popolazione dei coffee-shop equatoriali è ovunque la stessa. Conferisce a questi locali la caratteristica di luoghi di solitudine. Di introversione sassone. Il turista che passa non se ne accorge.

Col sopraggiungere dell’ora di cena, la sala va riempiendosi. Comincia a vedersi qualche donna bianca. Generalmente si tratta di nordiche che, quando non siano in piccolo gruppo per diletto, accompagnano il business dei mariti, lanciando sguardi languidi e annoiati al resto dell’ambiente. Le loro carnagioni sono chiare e burrose. I loro gioielli suonano.
Fuori dalle vetrate, la sagoma verde opale della piscina illuminata si staglia nell’oscurità, dipingendo di riflessi tonali gli abiti chiari di un’altra razza di avventori tropicali; europei anch’essi, ma non dediti agli affari. Sono quelli che si dedicano alle presunte delizie del “traveller sfaccendato e danaroso”. Abiti bianchi; accessori d’oro; sorriso tra l’estasiato e il malizioso; abbronzatura intensa; preservativo in tasca avvolto da rotoli di banconote.

Il ragazzetto davanti a me ha ora un compagno di giochi, anche lui computerizzato. Accendono insieme, dividono, e sembrano gustare, un unico Avana di medie dimensioni, forse un Partagas, evidentemente stonato nelle loro mani. Non lo sanno fumare; men che meno maneggiare, seppure con esso riempiano l’aria di gesti. E il loro ego di età.

E’ arrivato il sandwich. Mi verso la birra, attento a fare poca schiuma. Inizio a mangiare. Il club sandwich è un esercizio di disciplina. Soddisfa solo i più bravi. Bisogna resistere alla tentazione di addentarlo, come un qualsiasi panino: si scompone, al pari di un uomo o una donna senza classe. E finisce presto. Non solo: lascia una sensazione grassa di opulenza. Bisogna invece mangiarlo a piccoli bocconi, e usare le posate. Intervallare spesso con le patatine a corredo, e con la birra. Allora regala i suoi pregi; non disgusta; rivela dignità. Ho appetito. Il piatto è gradevole; forse un po’ sciapo. Quando allontano il piatto vuoto, il cameriere si avvicina solerte e mi domanda se desidero altro. Ordino un caffè.

Finisco lentamente la birra, prendendo appunti e fumando, prima di tornare alla 368 e fare la valigia per il volo. Sarà notte in bianco. La ragazzona nera si è unita alla solitudine di un attempato inglese, che prima era seduto più in là. Ora sorridono entrambi, preparando la serata.



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venerdì 2 luglio 2010

Dodici - Segreti




Segreti



Da piccola era vivacissima e allegra. Le piaceva giocare sopra i fogli larghi di un giornale spalancato sul letto matrimoniale. Il cricchiolio improvviso e secco dei suoi stessi movimenti bruschi la faceva ammattire: girava su sé stessa con scatti ripetuti, fulminei, a caccia di fantasmi.

Al minimo rimestare di stoviglie, abbandonava ogni occupazione e correva come un'ossessa per il lungo corridoio di casa, fino alla cucina. Abitudine che poi ha mantenuto, seppure con un trotterello più adulto e compassato. Negli ultimi tempi aspettavamo pazientemente, a lungo, prima di vedere il suo muso spuntare nella luce della porta di cucina. Ma non demordeva.

Non ha mai parlato molto. In lei prevaleva la discrezione di chi non ha un "pedegree".
I discorsi maggiori li ha sempre tenuti alla vista di una fetta di fegato, o prima di acciambellarsi su un letto. Ma i suoi occhi parlavano il silenzio. Con essi criticava, blandiva, rispondeva, annuiva, ammoniva, esortava. O chiedeva. Quando la chiamavi, nominandola con affetto, li socchiudeva fino a farne due fessure, prima di inarcare il collo sotto una carezza.

Era discreta, educata, elegante, pulita e silenziosa.
Era decisa, affettuosa e tenera.
Era calda sui piedi, in fondo al letto. O sulle ginocchia, mentre guardavi la televisione, a sera.
Partecipava.
Solo se qualcuno accendeva una sigaretta, si allontanava.

Ogni ora del giorno aveva per lei un angolo di casa, un tappetino o una sedia; un buco, un anfratto, un letto o un cuscino. Senza preferenze. Era sempre nell'angolo più ventilato, d'estate, quando l'afa incolla ogni cosa; dormiva con un punto di lingua rossa fuori dal nero dei baffi, per mantenere costante la temperatura corporea. Nelle sere fredde d'inverno, invece, si accoccolava sul marmo, a tre quarti del salone, là dove passavano i tubi del riscaldamento.
Impiegammo anni a capirlo.

Era sempre il primo «Buongiorno», al mattino; un allegro e gentile birignao dalla sedia, di fianco alla porta di cucina, per chiunque di noi entrasse, assonnato, alla ricerca di caffè.

Era egoista e ruffiana, nonché ladra e opportunista. Sapeva i nostri limiti e come superarli. Non si lasciava scappare quasi mai una cartata di carne, o di affettato, abbandonata incautamente sul tavolo della cucina. Ma si guardava bene da tentare il colpo, se solo percepiva un po' di fermento tra noi, la fretta di un preparativo concitato o un po' di nervosismo nell'aria. Puniva solo le nostre vere distrazioni; che so io, l'innocenza di una telefonata improvvisa, che ti fa lasciare le cose a metà e raggiungere di corsa il telefono di casa. Scoperto il furto, facevamo voce grossa e sgomenta. Lei, sapendo, a quel punto scappava a nascondersi. Ma lasciava sempre in noi l'impalpabile vuoto di un vago scorno: l'averci previsto.

Era signorile e snob. Preferiva i divani di pelle a qualsiasi coperta di lana. La sera, noi tutti intorno a un film, ti chiedeva con un colpetto di zampa di lasciarle il dondolo di vimini, al centro tra i divani, e quel cuscino di seta sul quale acciambellarsi lentamente, soddisfatta della nostra considerazione.
Era solitaria e riflessiva. A volte avresti giurato di vederla pensare con malinconia alla libertà, e al brivido oltre il terrazzo, lo sguardo perso nel vuoto di una finestra aperta.

Era tutto questo.
O forse era solo la nostra gattina, come i gatti che migliaia di esseri umani hanno per casa e amano. Noi, come tutti, credevamo fosse unica, e alla sua rassicurante naturalezza raccontavamo segreti.

Sta di fatto che da ieri non c'è più.
E questa cosa ci fa marcire di rabbia e di dolore.
E accresce le nostre solitudini.


Roma, 23 giugno 1989



martedì 8 giugno 2010

Undici - Anno nuovo





Anno nuovo



*

Buio.
Dove sono? Albergo! Sì, albergo. Executive. Milano. Due... tre, sette. 237.
(Mi giro nel buio – allungo una mano).
Comodino. Telefono. Telecomando. Orologio. Sigarette.
Orologio.
07:29.
Sette e mezza. Merda. Riuscissi mai a dormire un po’ di più!
Orologio. Posacenere. Accendino. Manopola. Pulsanti.
CLACK!
(Gingle)
«Rai, giornale radio,GR2»
(Gingle)
«Signore e signori buongiorno e buon anno da Cesare Palandri e tutta la redazione del gierredue radiomattino. Iniziamo la nostra rassegna di notizie, come consuetudine ogni primo di Gennaio, con il resoconto dei  festeggiamenti...».
…   
«…notte scorsa. Capodanno millenovecentonovantotto abbastanza tranquillo. In calo il numero dei feriti da fuochi artificiali, anche se registriamo, purtroppo anche quest’anno, due morti...».
«…Napoli e Ancona».
«...Colleghiamoci subito con le nostre redazioni di...».
...
«...dissuasi dal maltempo...
...Angelus in piazza...».
...      
«...Paolo secondo...».
...
...«Concludiamo con l’oroscopo di Linda Wolf. Ariete (voce di donna)».

Comodino.
Orologio.
07:55. 
OK, mi alzo.
Vago senso di nausea.
(sono seduto sul letto)
Aria viziata. Bocca impastata. Amara. Disgusto. Sonno insufficiente. Lo spumante da due lire. L'aria condizionata, arida. Troppe sigarette. Troppa TV, sparata al buio, prima di chiudere.
Capodanno da solo in albergo, steso sul letto a contare giri di fumo. Le facce di quegli scemi per forza: «Tre...Due...Uno... Millenovecentonovantotto!...».
Nausea. 
Se solo Massimo non avesse cambiato programma all’ultimo istante...

(Sette di sera. Mi sto legando la cravatta e faccio smorfie allo specchio. Trillo improvviso; fastidioso, nel silenzio ovattato).
«Ciao Gianni, sì sono Massimo; 'scolta: noi siamo in macchina...» (Marcato milanese. Risate scomposte). «'Cazzo fai?! Di là dovevi andare! Sì Gianni, scusa, èccomi. È che qui siamo già belli carburati, capirai! 'Scolta, abbiamo deciso all’ultimo: andiamo tutti da mio cognato, su, al lago Maggiore. Tu che fai ci raggiungi? …No, non più a casa mia, no. Andiamo fuori. Be’, poi lo troviamo chi ti riporta... Madài, sùpera il nonno, falla camminare 'sta vasca !...» (Ancora risate, altre voci)   «…Dicevo che poi lo troviamo qualcuno che torna a Milano... Come sarebbe ‘l'aereo alle dieci e mezza’? Così presto? Eh, ma allora... Sì, va bè, però… Mi spiace, cazzo, sono stato io a dirti... No, no, ma che dici, non me la prendo, capisco. Anzi : non prendertela tu! In fondo noi... Ma tu proprio a quell'ora lì devi partire ?...». 

La cravatta dev’essere ancora vicino al telefono.
Perché aspettare la mezzanotte sveglio, poi? Meglio dormire.
Che altro? Leggere un libro? Mi veniva sonno e via.
Oh sì, la notte di Capodanno!
Bah, meglio che spiattellarmi gli occhi con la TV!
Ma lo capisco solo ora, che la testa mi pesa. Se la muovo è una scatola vuota, di piombo. Che duole.
Tutto eh: l’ho bevuto proprio tutto. E non era neanche buono.
Disgusto.
Ok, mi alzo.
(sono in piedi a tentoni nel buio). La tenda.
Apro la tenda.
Diafano grigio uniforme.
Spalanco la finestra.
Piove, paro e freddo.
Cioè Milano.
Lontano, sopra le case, il ‘Pirelli', fantasma scuro dai contorni indistinti. Inquietante, in lattigine immobile.
Strano silenzio Via Sturzo deserta, qui sotto.  
Vuoto tagliato di nero dai fili del tram. Non si notano mai i fili del tram, quando le macchine sfrecciano, o quando si ammassano tutte a scatti nevrotici, per aggredire il semaforo.
Di là della strada l'androne surreale della stazione Garibaldi. Una sola persona, un cinese, consulta il tabellone degli orari dei treni. Sembra un cinese. Spicca il blu dei suoi jeans nel cupo di grigi e marroni.
Non un rumore.
Non un movimento.
Si sposta soltanto il vapore del mio respiro. L’aria gelida (per altro piacevole) lo ricaccia dentro la stanza alle mie spalle. 
Mi volto. Mani sui reni. Dolore sordo. Respiro profondo. Letto troppo morbido.
La cravatta è lì, vicino al telefono. Sotto il vuoto verde e oro dello spumante.
Trascino i piedi verso l’interno.
Lampo d’intuito: gli acari della moquette scombussolati dal mio alluce trascinato. Kafkiano. Brivido di schifo.
Scatti metallici di neon. Paziente attesa forzata e… luce del cesso.
Doccia calda.
Formicolio di sollievo dei muscoli torpidi.
Mi asciugo.
Cerco novità nello specchio. Mi rado.
Mi vesto. Due ore e si parte.
Lavoro di merda.
Esco a cercare un po’ di caffè.

L’unico bar aperto è in stazione. Attraverso la strada senza guardare. Entro in stazione. Passo davanti a un enorme albero di Natale, eretto nell’androne principale, di fronte alle biglietterie chiuse; luminoso intermittente; squallido e isolato, come una menzogna scoperta nel silenzio che la segue. Una voce femminile metallica annuncia i primi treni per Lecco e Sesto S.Giovanni. Il cinese è scomparso. Ma era un cinese? Non c’è anima viva. Non un macchinista, non un passeggero, un saccopelista, un barbone. Nessuno. Entro nel bar.
Una donna magra, cinquantina portata male, capelli grigi corti, incolti, occhio strabico che mira da un lato, esce da una porta dietro al bancone di mescita. Ha il grembiule macchiato, le mani nodose, tumide di detersivi; odora di fumo, si sente da qui. Mi accoglie con un mormorio; prepara e mi serve un caffè lungo e un cornetto. Esige subito il pagamento e sparisce, là da dove era comparsa.
Sono di nuovo solo.
Saluto ugualmente, uscendo.
                               
**

Alle 8:37 il ragioniere Golelli, 35 anni, uscì dall’Hollywood in Corso Como, barcollando leggermente, per raggiungere la macchina parcheggiata. Si passò una mano sulla stempiatura precoce. Respirò profondamente.  
Ok. Fine della festa.
Diversa da come si aspettava. In fondo piccola, la discoteca; troppo caldo; troppa folla. Volume troppo alto.
Con gli amici di sempre. Biagio, Chiara, il Biro, Giorgio e Alessia, Gianna e Lello. Alessia sempre inseguita dalle sue morbide forme, sode, tondeggianti; stasera strette in una gonnellina corta, di paillettes, che dietro ondeggiava insolente, a ogni passo.
Per la prima volta tutti in un locale, anziché i soliti tombola e mercante in fiera. Un evento. Non un posto qualsiasi, no: una discoteca famosa. Conto salato. Gente elegante. Mondanità. Molta gioventù ‘bene’ di Milano. Qualche viso noto. Pieno di belle donne.
Già. Belle donne.
Aveva qualcosa da raccontare, in azienda.
Immaginava la faccia di Baretti, il caposervizio, che chiede, ma dissimula interesse. Capodanno in casa, quello del Baretti, da sempre. Moglie, suoceri e genitori anziani… «Che donne!» gli avrebbe detto. «Sembrava si fossero date raduno lì! Quelle che vedi solo sui giornali, hai presente? Giovani, fresche, allegre. Un piacere, Baretti, credi a me!».
Un fremito di freddo lo riscosse dall’immagine di Baretti, e dal racconto. Stava camminando in mezzo alla strada. Corso Como deserta. Stranissima sensazione. All’arrivo aveva dovuto girare molto, per trovare parcheggio. Si diresse verso l’hotel Executive, Via Sturzo, per raggiungere l’angolo di Via D’Azeglio. Si era guardato bene intorno, stanotte: che nessuno lo vedesse scendere dalla vecchia Fiat Uno rossa, scolorita. Girò a sinistra, sotto i portici. Si accorse che non stava più prendendo acqua. Tornò a passarsi una mano sulla fronte, e sui pochi capelli. Erano bagnati. Gettò un’occhiata verso la strada. Pioggerellina. Al Biro avrebbe telefonato più tardi.
Il movimento del braccio gli restituì una folata umida di profumo femminile. Si annusò la mano destra. Shalimar. Guerlain.

Saranno state le tre. Festa ancora in pieno svolgimento. Biondina. Sì e no vent’anni. Aveva certamente bevuto. O forse (più intrigante) una pasticca. Sì, aveva notato anche lui degli strani movimenti vicino ai bagni.
Patrizia.
Nome falso, forse. Ci aveva pensato troppo.
Se l’era ritrovata tra le braccia, in uno di quei momenti in cui la massa sbanda, perché qualcuno fa il pirla. L’aveva aiutata a rialzarsi, le braccia sotto le ascelle nude e calde, la mano destra su un seno morbido piccolo e sodo. Un abitino da sera leggero e Shalimar di Guerlain. Quel “classico” che addosso a una ragazza giovane ti confonde, ti fa diventare matto. Pensieri lascivi sulle pieghe del corpo di lei. Che intanto gli chiedeva da bere.
Luigi Roncini, per tutti il Biro, farfugliava di macchine al bar con quattro distratti. Non si accorse nemmeno del loro passaggio, peccato. In ufficio sarebbe stato un testimone prezioso. Biagio, Chiara, Giorgio e Alessia erano già via - beati loro - a finire di festeggiare in casa. Gianna e Lello ballavano. Lontani.
S’era fatto coraggio. Cuore imballato. L’aveva fatta bere, forte, ridendo; facendola ridere. C’era riuscito, proseguiva a dirsi. E si guardava intorno, a vedere se qualche uomo venisse a cercarla. Poi aveva ordinato un altro giro, perché: «Non ci siamo ancora scambiati gli auguri!». Non era riuscito a pensare a nulla di meglio. Auguri. Giù. Lei tutto d’un fiato. E di nuovo a ballare, vicini nella calca, parlandole all’orecchio - «Mi chiamo Giacomo!» - per sovrastare il frastuono. Il naso nei capelli e sul collo di lei; le mani ai lati del seno, là dove finisce il vestito e gli indici sfiorano pelle. «Sei molto bella!».
Lei sempre sorridente, forse inconsapevole, ora certamente ubriaca, quasi automatica nei movimenti del corpo. Le lunghe gambe tornite, fasciate di nero trasparente e costoso; ferme sul posto e sui tacchi di raso scuro. Solo il bacino in movimento, e le braccia; gomiti stretti sui fianchi.
            Poi era arrivato lui. Uno e novanta. Un bel vestito di firma, camicia chiara, dal collo evidente, marcato; senza cravatta. Gel sui capelli corti; attaccatura bassa sulla fronte abbronzata, neri. Tutti. Sguardo tra l’intenso e l’imbecille. Sorriso stampato tra due pieghe studiatamente amare; ore di prove allo specchio. Si era infilato tra loro, dandogli volutamente le spalle, per escluderlo senza parlarne nemmeno. L’aveva cinta alla vita e maltrattata con ritmo per qualche secondo, bacino contro bacino. Quindi era giunta un’amica di lei, per dirle qualcosa all’orecchio, indicando se stessa sul seno e poi il ganzo. Patrizia aveva spalancato gli occhi inespressivi con meraviglia, poi rovesciato indietro la testa e si era offerta a un bacio impudico e masticato del tipo, che un attimo dopo le aveva portate via entrambe.
Via. Dal locale.
            Giacomo li aveva seguiti con gli occhi, immobile nella calca, fino a vederli uscire. Poi s’era annusato la mano, per sentire il profumo di lei, cercando all’intorno: dov’era finito il Biro?
Il Biro, era ancora al bancone del bar. «Ehi! L’hai vista?» gli aveva detto, dopo averlo raggiunto.
            «Cosa?» aveva urlato quello, in risposta.
            «La bionda che ho rimorchiato!».
            «Dov’è? Ma che dici? Ma va! Non prendermi per il culo!».
            «Ma no, sul serio! Si chiama Patrizia! Dai, non l’hai vista?».
            «Golelli, non fare il coglione: dove sarebbe la bionda?».
            Non aveva esitato che un attimo: «Non ho tempo, ti dico! Sto uscendo. La porto da me!».
            La faccia sgomenta e sorpresa del Biro. Solo quella avrebbe raccontato poi a tutti.

*

Il tempo sembra assumere un senso solo in queste occasioni. 
Festeggiare cosa?
Si festeggia per non fermarsi a contare!
La confusione, tutti insieme. Alcol. Cibo. Fumo. Allegria di prammatica. Voluta a ogni costo. Ci si confonde sugli anni con un rito immutabile. Illusione di invariabilità. Eternità fittizia.
Perché si festeggia il capodanno? Se Massimo non avesse cambiato programma all’ultimo istante, avrei affogato nella baldoria i miei conti.  Che invece ho fatto, e rifatto, steso sul letto. Con lo spumante. Solo.

Era stata Laura a convincermi, mio malgrado, con la sua voce un po' petulante: «Lavori anche il primo dell'anno? Ma dài! Va be’: vieni ugualmente, no?! A casa di Franco si sta bene. L'anno scorso c'era pure un po' di robina. …Non importa se non conosci nessuno. Guarda che a Milano non siamo mica marziani! …Ma che sei matto? Da solo? Nooo, da soli mai! Si deve fare casino, a capodanno! Ma pensa che tristezza: tutti festeggiano, in tutto il mondo, e tu da solo, a fare una cena normale! E poi voglio vedere chi te la dà, una cena normale, alle otto di sera del 31 dicembre! E magari te ne vai a letto e leggi un libro! Dài dài dài: dico a Massimo che ti venga a prendere».
Non c’è cosa che io detesti più di una aspettativa delusa. Preferisco ammazzare il desiderio, prima ancora che generi attesa.
Salgo le scale del sottopassaggio. Qualche goccia di pioggia sugli ultimi gradini. Il caffè era bruciato. Aveva un gusto pessimo.
I portici davanti all’albergo.
Non c’è proprio nessuno.
No. Qualcuno arriva. Barcolla. Ha bevuto anche lui. Vestito da sera, chissà da dov’esce. Sorriso un po’ scemo. Ma no: felice. Che ore sono? Le otto e quaranta. Bella la festa eh? Beato te, che sei stato con gli amici e ora te ne vai a dormire contento!
M’accendo una sigaretta. Lo guardo passare. «Buon Anno» gli dico.
Mi guardi? Che guardi? Rispondi, imbecille, è un augurio!
Nulla.
Ma sì, che te frega? Ti sei divertito. Sei a casa. “Chissà cosa vuole ‘sto scemo” ti starai chiedendo. Hai ragione.
Lavoro di merda.

**

Era entrato in macchina intorno alle 3:30, e aveva deciso di cambiare parcheggio; di spostarsi un po’. Un giro di quartiere. Un posto che si libera in una via traversa.
Due manovre.
E di nuovo silenzio.
Il ticchettio del portachiavi che finisce di dondolare.
Abbassato lo schienale del sedile di guida, si era steso. Aveva preso la fiaschetta del whisky dal cassettino portaoggetti e aspirato due profonde sorsate. Inghiottite con un leggero colpo di tosse, aveva atteso che facessero effetto.
Però, carina la tipa! Golelli, ci sei andato vicino, aveva pensato tra sé. «Certo: non ci fosse stato il ganzo…». Aveva pronunciato questa frase piano, accendendo la radio, il braccio steso con un leggero sforzo di addominali. Sintonizzata una stazione con musica classica, a basso volume, aveva chiuso gli occhi. Gli fischiavano le orecchie. Troppo alto il frastuono, in discoteca.
Gli tornò in testa la serata dell’anno precedente. Casa di Alessia. Una decina di persone. Le lenticchie di Chiara, a mezzanotte: insuperabili, come ogni volta. Si era poi giocato a carte, in allegria; e tirato l’alba in conversazioni sommesse, simpatiche e soddisfatte. A tratti anche tènere, a ricordare l’amicizia di una vita; tanti piccoli episodi che costruiscono l’affetto. Quest’anno invece niente lenticchie. Cena in piedi: pasta al salmone in piatto di plastica, spumante e dolce. Addio tradizione. Niente piccoli episodi. Nessuna scansione dell’affetto.

Quando riaprì gli occhi aveva la bocca impastata e sentiva freddo. Sì scosse e si massaggiò le braccia, una con l’altra. Diede un’occhiata all’orologio da polso: le 7:35. Scese dall’auto e si avviò di nuovo verso la discoteca, rassettando gli abiti. All’ingresso mostrò il biglietto a una ragazza semi-addormentata. I buttafuori non c’erano più. Dentro, la musica andava ancora. Meno gente. Riconobbe uno degli interlocutori del Biro, disteso su un divano, che dormiva a bocca aperta. Una donna al suo fianco gli carezzava la testa con una mano e si guardava le unghie dell’altra. Ordinò un Bloody Mary. Aveva sete. Poi un altro. Aveva anche fame. Salutò con un gesto Gianna e Lello che, a distanza, recuperati i cappotti, si avviavano all’uscita. Lello  portò una mano di fianco al viso, pollice e mignolo distesi, le altre dita raccolte: si sarebbero sentiti per telefono. Con la stessa mano fece ciao ciao anche lui, prima di voltarsi e uscire. Del Biro nessuna traccia.
Prese a conversare con il barista, che stancamente riordinava il bancone e asciugava bicchieri.

Quando uscì, intorno alle 8:30, sentiva la testa pesante. Si passò una mano sulla stempiatura precoce. Si accorse di barcollare. Respirò a fondo. 
Ok. Fine della festa.
Fece qualche passo in mezzo alla strada deserta. Poi infilò i portici di Via Sturzo, verso la macchina, e s’immerse nei pensieri. Poco dopo, lontano davanti a lui, scorse una figura. Un uomo alto, vestito di scuro, con un cappello militare. Il portiere dell’albergo? Gli era sempre più vicino. No. Strano abbigliamento, però. Forse un pilota.
Sì un pilota.
Beato te, pensò osservando il tipo. Bella vita, la tua. Festeggiato il Capodanno, chissà dove te ne vai, ora, eh?...
Passò oltre, cercando con le mani in tasca le chiavi della Fiat.

***

Elisa si asciugò le mani, tornando nel retrobottega del bar. La sigaretta fumava ancora nel posacenere. La prese per un ultimo tiro avido, prima di schiacciarla, e si sedette di nuovo davanti ai fogli sparsi sul tavolo, pieno di briciole. Con le 40.000 lire guadagnate quella notte avrebbe pagato la bolletta della luce. Ma era nuovamente senza lavoro e, sola, non avrebbe saputo più a chi chiedere…