mercoledì 3 marzo 2010

Otto - La panchina




La panchina


Per quanti anni ogni giorno aveva percorso a piedi quel tratto di strada? Venti? Trenta? Non lo ricordava neanche più. Poco importa. Dal negozio ai giardini prima della piazza, in fondo al viale. Laggiù poi, la panchina su cui sedersi per attendere l’autobus. Un approdo.

Tutte le sere, dopo la chiusura del negozio. Da sempre.
L’ampio marciapiede di platani, oggi alti, grossi di resistenza al cemento, anziani e polverosi. I portoni aperti dei vecchi condomini, attraverso i quali sbirciare nei cortili e immaginare finestre, panni stesi ad asciugare, piccoli rumori di quotidianità, a pochi metri dal caos. Le botteghe, una dietro l’altra con i loro colori, talvolta gli odori, a invadere l’aria di pochi passi. I volti dei negozianti; le loro abitudini, riconosciute all’istante nei frammenti di gestualità rituale, percepita da fuori, passando, come film muto; luminosa serie di quadri scanditi; ogni immagine una vicenda. La luce ingiallita dei lampioni, che si scambiano l’ombra distesa di chi cammina sul marciapiede, allungandola a dismisura prima di cederla al palo successivo.

Ogni volta, in ogni età, passando in rassegna quella serie di incontri alla fine di ogni giornata, Franco aveva calcolato piccoli bilanci personali; fantasticato progetti; assaporato il sentore di stagioni diverse. Oppure la semplice idea del riposo, del ricovero che avrebbe trovato in casa, per preparare il domani.
Oggi come ieri quando, ragazzo, rientrava sudato, sporco di interminabili sfide di calcio nel cortile della vicina scuola; il grembiule impolverato, il colletto di plastica aperto, le scarpe piene di terra; sulla spalla il peso della borsa di libri, da contrastare con un’andatura sghemba. Oppure di fianco a suo padre, che gli chiedeva di scuola con domande distratte, mentre immerso in pensieri da adulto. Anche allora, pensò, lo rassicurava il calore percepito di quella estesa condivisione. Gli era sempre piaciuto il senso di partecipazione alle cose umane, che lo sguardo lanciato all’intorno restituiva a ogni passo. Pochi minuti a piedi, fino alla panchina, per un ritaglio d’intima soddisfazione; un’euforia di libertà momentanea e, al tempo stesso, il piacere sottile dell’appartenenza. Dell’identità con cui ristorare l’animo.

Ben diversamente dal mattino, quando il mondo la vita i pensieri la testa e il passo sono frenetici, tesi allo scopo, impegnati assorti astratti da tutto fuorché dal motivo pressante del giorno, dalla scadenza imminente, dalla consegna, dall’ordine, dal pagamento, quando il tragitto è rapido ed euforico come un sospiro trattenuto, ogni sera Franco centellinava lentamente, passo a passo, quella rassicurante verifica. A controllare che ogni cosa fosse al proprio posto ma, soprattutto, a godere del proprio legittimo posto tra le cose.

Certo, in quel medesimo breve tragitto gli era anche accaduto di maledire occasionali sconfitte; passi falsi; attese snervanti per un risultato indeciso; quindi di essere inconsciamente infastidito da quelle medesime presenze, immutabili e tranquille, che allora gli apparivano come osservatori petulanti; quasi lo additassero a sottolineare, di volta in volta, con la loro calma, la sua difficoltà. Ma la consapevolezza dell’andare e venire, ciclico, delle vicende umane non lo aveva mai abbandonato del tutto. Neanche in giovinezza. «In fondo…» ripeteva tra sé «…l’esistenza è come un grande gioco di società, nel quale il rischio è comunque incidentale, circoscritto. In qualche modo visibile».

Così, anche in quella sera di Novembre, abbassata la saracinesca del negozio, Franco si accinse alla sua passeggiata. Importava poco che il lungo viale di platani fosse tempestato da una gelida tramontana, a folate rabbiose: casa lo attendeva, calda e accogliente come sempre. Il sorriso di sua moglie oggi, come ieri quello di sua madre, incorniciato sulla porta d’ingresso dagli odori di cucina. La posta da passare in rassegna; due dita di vino; un buon disco in sottofondo. La cena e un film da commentare, prima del sonno. Gli affari erano andati ottimamente, per tutta la giornata. Libri scolastici, soprattutto in questa stagione. Ma anche la cancelleria, i rifornimenti di base che gli insegnanti chiedono all’inizio di ogni nuovo anno di studio. Un ottimo incasso.
La cartolibreria Salvetti, aperta da suo nonno nel primo dopoguerra, poi passata da suo padre a lui, era una sorta d’istituzione nel quartiere. Franco ne era giustamente orgoglioso. Più che gestirla, egli ogni giorno la indossava, come un abito di cui conoscesse ogni cucitura e difetto. Non la considerava neanche più un esercizio commerciale: vi identificava la scansione della propria esistenza; la propria collocata utilità sociale. Ma anche uno specchio in cui vedere riflessa la vita, nella dinamica delle sue stagioni. Ciclicamente.

Ogni anno nel medesimo modo, secondo un rituale immutabile nel tempo: per gli alunni delle prime classi elementari della vicina Scuola Massimo D’Azeglio, i quaderni a righe ampie, su cui sudare grandi caratteri lenti, calcati e incerti. Matite e colori, per i loro disegni dalle proporzioni improbabili, gonfi d’amore e d’orgoglio; o per i biglietti da riempire di promesse pure e inconsapevoli, in previsione del Natale. Il chiasso e l’entusiasmo dei bambini. I richiami stizziti ma affettuosi delle mamme a non toccare ogni cosa. Passavano poi gli adolescenti delle medie, che ottenuti i loro primi veri libri di testo (le madri ancora intente a pagarli), sfogliavano e risfogliavano a lungo, con preoccupazione, le pagine scure di caratteri fitti, già immaginando le lunghe ed estenuanti lotte interiori, tra studio e richiami esuberanti. I loro sorrisi perplessi, e i commenti stringati, e timidi, con la voce scomposta dalla muta ormonale; ingovernabile nei toni. I liceali, oramai quasi del tutto indipendenti, che scanzonatamente s’agitavano alla ricerca di qualche testo usato, per risparmiare sul finanziamento paterno e spendere il resto nel vicino bar Torrisi, tra videogiochi e sigarette ostentate con intima incertezza. Oppure i clienti di una vita, gli adulti che, passati da ragazzi, lì tornavano per le forniture dei loro studi professionali. Condividevano oggi preoccupazioni mature, sociali, o improvvisi ricordi d’infanzia, ritrovandoli con uno sguardo al mobilio novecentesco, preservato negli anni, oggi marchio di serietà e tradizione. Gli insegnanti, assorti nella scansione del lavoro; o investiti di un ruolo che non termina fuori dalla classe; altri invece liberi proprio dal quel ruolo, e soddisfatti di assumere un’identità più leggera, agli occhi degli studenti incontrati nel negozio. Infine gli anziani, alla ricerca di un contatto a loro affine, più che di un pennino o di un inchiostro colorato. Di una conversazione imbastita su piccoli convenevoli di cortesia, più che di un libro di narrativa classica.
Così era sempre stato, da quando aveva memoria. Così sarebbe stato sempre.

«La vita è una serie di “costanti”; il ripetersi di “norme” in un’alternanza di “mode”», pensò, attraversando l’ultimo crocevia. «Basta intuirlo, per esorcizzarne il peso».
Cominciò a fiancheggiare i giardini che concludevano il viale, in prossimità della piazza, e il pensiero corse a sua moglie Maria. In quel piccolo parco l’aveva baciata per la prima volta, alla fine della scuola, in un giugno di tanti anni prima. Il recinto basso di legno era l’unica cosa diversa da allora. Anche gli alberi, i lecci, pur essendo gli stessi, non assomigliavano più alle giovani e isolate piante di un tempo. Le fronde ora si congiungevano una all’altra, in un soffitto di ombra che a sera inglobava la luce dei lampioni, creando atmosfere surreali. Ma il resto era immutato: la fontana dei delfini, rotonda, nel centro, all’incrocio dei vialetti di ghiaia; la vasca di pietra ricolma di acqua, in cui da bambino aveva fatto navigare legnetti, raccolti all’intorno; le piccole siepi di bosso, all’interno della recinzione, qua e là interrotte dall’uso di passaggi continui, per evitare l’ingresso in piazza; l’angolo per i giochi dei bambini, con lo stesso scivolo di metallo, ora non più colorato, su cui mille volte, d’estate, si era scottato le gambe.

In fondo al marciapiede, dritto davanti a lui, poco prima della piazza, la panchina. La sua panchina. O meglio: “La Panchina”; l’attimo ultimo. Quello dei consuntivi e dei progetti. Il posto in cui, da ragazzi, perdere autobus e cognizione del tempo perché ci sono chiacchiere da finire, e la voglia di stare insieme ti trattiene ancora un po’. Il luogo degli ultimi baci con Maria, da fidanzati, prima di salire su due autobus diversi. Il punto di tutte le partenze e di tutti i saluti. Quello simbolico, in cui il pensiero si deve fare un piccolo coraggio per affrontare il distacco, anche momentaneo, dai fatti; dalle persone; dalla vita vissuta.
Per ritrovare la propria solitudine. L’apnea fino a domani.

Quando giunse alla panchina, Franco vi trovò seduto un vecchio; mai visto prima nel quartiere.
In maniche di camicia, il tipo aveva indosso un panciotto sdrucito su un paio di pantaloni consunti e sformati dall’uso. Pareva indifferente al freddo e all’impeto dell’aria, che faceva mulinare scompostamente i suoi pochi, lunghi, capelli canuti. I gomiti puntati sulle ginocchia, il capo sorretto dalle mani congiunte, mirava il vuoto davanti a sé, come assorto in pensieri lontani.
Franco rallentò il passo, accostandosi, deluso di trovare il posto occupato e di interrompere il filo dei propri pensieri. Quando fu fermo, prese a osservare quella strana figura.
Questi dapprima parve non vederlo, quindi, muovendo solo gli occhi verso di lui, parlò con voce rugosa, bruscamente.
«Che hai da guardare?»
Franco fece per rispondere, ma fu subito interrotto.
«Non sono solo, non sono povero e non sento freddo…».
Interdetto, Franco non seppe come replicare.
« …Ci fosse stato un solicello tiepido, non ti saresti nemmeno accorto che sono qui», proseguì il vecchio, che intanto aveva ripreso a guardare fisso davanti a sé.

Assecondando l’istinto, più che la ragione, Franco poggiò in terra la valigetta che teneva in mano e, aggiustandosi alla meglio la sciarpa intorno al collo, si sedette di fianco al vecchio, non senza un certo imbarazzo. Avrebbe voluto ribattere qualcosa e cercò un qualunque filo di pensiero; ma tutto ciò che affiorava alla mente gli parve banale, o inopportuno. Rimase quindi in silenzio. Infilò una mano nel cappotto e ne trasse un pacchetto stropicciato di sigarette. Stava per tenderlo al vecchio, quando questi riprese a parlare.
«Perché ti sei fermato? Pensavi fossi un barbone?»
«Io… sto andando a casa»
«Lascia stare…», lo interruppe quello, ora accennando un sorriso un po’ amaro. «…Lo so da me: noi vecchi abbiamo tutti un’aria un po’ sciatta. E’ la vita che ci sciupa così». Il vecchio fece una pausa più lunga, poi riprese: «Credono tutti di poterla bere d’un fiato, di riuscire a gustarne fino all’ultima goccia senza provare la minima ebbrezza. Già, gli uomini credono di sapere ricette, di intuire segreti e alchimie, di riuscire a fregarla comunque, in qualche maniera, fidando nella loro prudenza; a volte nella sorte, o nel caso. Lo credono, nell’intimo. Senza rivelarlo a nessuno. Poi, si ritrovano, …ci ritroviamo, un bel giorno, come vecchie giacche consunte dall’uso, sfondate, che nessuno vuole più indossare. E solo allora capiamo di essere stati noi a servire la vita, e non il contrario».
Franco era sempre più confuso. Si guardò distrattamente le scarpe, per riempire d’un gesto il suo vuoto imbarazzo.
«Sì…», riprese quello. «Sì, succederà anche a te. Probabilmente prima di quanto tu non creda. Puoi farci una scommessa. Vedi, basterebbe rendersi conto di ciò che accade. Voglio dire: si passa tutta la vita a correre dietro a piccole date; a conti inutili che sembrano preziosi; a ricorrenze da festeggiare; a desideri e sogni, spesso irrealizzabili, che tuttavia ripetiamo in continuazione. Chimere, nient’altro che chimere! Altri si nascondono dietro a una caparbia imperturbabilità, aggrappati alla convinzione che basti semplicemente ignorare i problemi, fin quando è possibile, per evitarli. E si fingono felici; spavaldi. Poi ci sono quelli che costruiscono fortini di carta, e restano trincerati dietro la loro prudenza accorta, per non uscire mai. Mai una discussione. Mai un’opinione esplicita. Mai una passione assecondata con slancio e incoscienza. Solo le malattie, o le sciagure, ci fanno un po’ riflettere sulle umane cose. Solo in quei casi ci soffermiamo…». Il vecchio sputò per terra, poi riprese: «Oh sì, ma sono sempre lacrime di coccodrillo, ipocrisie del momento. Perché non vediamo l’ora di tornare a instupidirci di cose… come dire, importanti. Anestetici. E’ sufficiente stare un po’ meglio, che so io, vedere due amici; essere lusingati da una bella donna, e tutto torna come prima: si riprende a correre dietro a chimere, che altro non sono che paura della realtà. Questo il fatto: abbiamo paura della realtà! E non ce la raccontiamo mai giusta. Mai. Comunque la rendiamo più dolce. La acconciamo al nostro desiderio. E crediamo, sì, crediamo di agire per nostra volontà. Corazzati contro i pensieri cattivi, non vogliamo ammetterlo: i fatti che accadono condizionano le nostre azioni. Non sono le nostre azioni a determinare la vita, come invece vorremmo. La verità non esiste. Inutile ricerca, la verità. Esiste la realtà. Esiste accettare l’effettiva realtà dei fatti, e imparare a essere sereni per questo. E poi vivere le passioni. Lasciarsi andare, ogni tanto. Perché, vedi, il rammarico maggiore, quando arrivi alla fine, è sempre quello di non esser riuscito a vivere meglio. Intendo dire sereno, distaccato, felice del poco che hai… Aaàh! Troppo tardi! Lo capirai pure tu. Basta un granello nell’ingranaggio perfetto, e tutto salta».
Franco aveva ascoltato in silenzio, lo sguardo al marciapiede, indeciso tra fascino e fastidio.

Il vecchio tacque.
Trascorso qualche interminabile secondo, Franco abbassò lentamente lo sguardo sul pacchetto ciancicato di sigarette, che ancora stringeva in mano. Decise di voltarsi, alzando il braccio, per offrire una sigaretta al vecchio. Ma, interdetto, di fianco a sé incontrò solamente il vuoto, il vento freddo che gli saliva su per la manica; e null’altro che stordimento, confusione, sorpresa.
Restò lì per un po’, impietrito, solo sulla panchina.
Poi lentamente, guardandosi attorno con circospezione, rimise la mano in tasca e si assorse nei suoi pensieri confusi.

Fu il rumore dell’autobus, il sibilo pneumatico delle porte che si aprivano, a distoglierlo da quella sorta di tenace fissità. Rapidamente, riprendendosi, raccolse la valigetta e si alzò, trattenendo la sciarpa con la mano libera. Solo a quel punto si accorse della presenza di un giovane sulla ventina che, appoggiato al palo della fermata, lo osservava con insistenza e intensità, quasi lo studiasse.
In un attimo Franco disse acidamente: «Che hai da guardare?»
Il ragazzo non rispose: sorrise in modo mite, socchiudendo gli occhi, poi si volse e salì sull’autobus scuotendo lievemente il capo.
Le porte si richiusero, con un sibilo e uno scatto, e l’autobus se ne andò.
Franco immobile a vederlo allontanarsi.