venerdì 1 gennaio 2010

Sei - Roma termini






Roma termini



Roma. Stazione Termini. Ore 17:05. Moltitudine umana vociante in movimento. Onnidirezionalità imprevedibile, in flussi costanti. Intermittenze luminose, ripetute. Policromia elettrica. Acrilica. Aria fredda, umida di pioggia trascinata all’interno, sull’immenso piancito. Rifrazione di suoni accavallati. Richiami. Frammenti di conversazione. Annunci di treni in partenza e numeri di binari. Sonorità successive che rimbalzano, si allontanano, navigando lo spazio monumentale dell’atrio. Movimento perpetuo collettivo. Brulicare di percorsi, che s’incrociano, e s’intralciano, in casualità babelica.
Io atomo nel brodo primordiale.


Mi si avvicina in rotta lenta di collisione, parlando tra sé ad alta voce, apparentemente assorto, evitando passanti, nella folla che si muove in tutte le direzioni. Quando mi è quasi davanti, come interrompendo un flusso di pensieri, alza lo sguardo verso di me; istantaneamente mi sceglie e dice:
“…Non è per caso diretto a Milano, lei?”
Arresto il passo; metto dritta la valigia che sto tirandomi dietro e lo guardo.
E’ ben vestito. Indossa un lungo cappotto di cachemire grigio fumo, sbottonato in alto per fare posto a una sciarpa turchese molto ampia, anch’essa di lana pregiata, avvolta intorno al collo in modo soffice; stylé. Calza scarpe di cuoio marrone, di ottima fattura, il cui punto di colore è il medesimo della 24 ore di pelle che stringe nella mano sinistra, lungo il fianco. Con la mano destra gesticola, garbatamente, nello spazio tra noi; le dita ad accompagnare le parole con piccole mosse di senso, quasi disarticolate. Ha un viso grande. La pelle è curata, soffice, e rivela una cinquantina di anni di attenzioni. Gli occhi sono azzurri limpidi e attenti. Ha una capigliatura folta, grigia, di media lunghezza; lavata da poco, ariosa e morbida, tanto da richiedere spesso il riavvio di un ciuffo che cala davanti agli occhi, a ogni movimento del capo. Al suo collo sottile si accompagna una camicia nuova, di ottimo cotone celeste chiaro cangiante in bianco, quasi perlata; stretta da una cravatta di seta blu marina, che brilla alla luce delle lampade di stazione. Il tono di voce è garbato, non squillante ma sonoro; impostato. Si distingue bene, nel brusio chiassoso e frastornante. Ha un’inflessione milanese. Si esprime in italiano forbito; ottima dizione.
“No, sono diretto a Parigi” rispondo.
“A Parigi? Ah, Parigi! …Bien! Be’, solo per dire.  Peccato lei non vada a Milano. Quindi non prende il Freccia Rossa. A Parigi… Sì, a Parigi mi appoggio alla Galérie ….court e ho degli agganci molto seri e duraturi con la Salle de …mont”.
I due nomi, che pronuncia come seguitando la precedente riflessione, risultano incomprensibili.  
Prosegue: “Sì. Sono, ma è un’orribile definizione, sono un mercante di arte…”.
Abbassa lo sguardo e punta un dito, senza toccarmi, sul risvolto sinistro della mia giacca, dove è appuntata una spilla che riproduce una chitarra acustica.
“Musicista?” dice, alzando di nuovo lo sguardo verso di me.
“No, non sono un musicista” rispondo pacatamente.
“Mi sono permesso perché ho visto la chitarra. Lei sa, ci sono molti musicisti che preferiscono la ferrovia all’aereo, per trarre ispirazione dal rumore ritmico…”.
Lo guardo, tacendo.
“… Mi ascolti; se la cosa non disturba, posso sapere qual è il suo ramo? Ecco, sì, di cosa si occupa? Non mi fraintenda: nous somme …, la quelle,… à bien voyer toutes le choses, … parce que … si on fait de …”.
Proseguo a guardarlo ma non capisco ciò che dice: almeno metà della frase è fatta di parole incomprensibili, pronunciate di corsa.
Lui insiste, imperterrito; garbato: “Mi sono espresso in francese perché tra noi, uomini di mondo, ancora lo si parla un po’; ma le stavo dicendo che sarei interessato, se non sono indiscreto, a sapere in quale ramo lei svolge la sua attività. Non deve pensare che  io voglia…”
Istantanea luce: se non fornisco una risposta, il tizio proseguirà a parlare.
“… cioè, lungi da me l’idea di volere insistere se mai lei…”.
“Sono uno scrittore” taglio corto, mentendo.
“Oh, lei scrive? Non mi dica! E cosa scrive? Sa, io conosco diverse persone che… Ho molti amici, intendo, scrittori e giornalisti, che si sono rivolti a me per i loro investimenti in arte, visto che, sempre per non dire, a Firenze opero in sinergia con l’atelier …eschi. Lei sa di cosa parlo, immagino. Una delle migliori gallerie in assoluto! E, di grazia, qual è il suo nome? Intendo dire, la conosco? Lei deve essere una persona famosa, quindi. Sa, si potrebbe…”.
Rispondo un’altra volta senza attendere una pausa che non verrà: “Il mio nome non è ancora famoso”.
“Ah sì? Be’, in effetti lei sembra una persona assai determinata. Uno che sa il fatto suo. Perché oggi se non si perseguono con caparbietà assoluta i propri obiettivi non… insomma, lei ancora non è famoso. Ecco, se alle volte volesse considerare…(attimo di silenzio). Con le conoscenze che ho accumulato in una vita di lavoro… (si schiarisce la voce). Tuttavia, in questo momento mi trovo a fronteggiare un disdicevole inconveniente, poiché ho perduto mezz’ora fa il porta-documenti con tutto ciò che conteneva. La cosa mi sta bloccando qui, in questo girone dantesco. Perché questa non è una stazione, ah no, caro lei! Si ricorderà come era bello viaggiare in treno, una volta; altro che! Oh, la prima classe di un tempo non si batteva. Era … (si guarda in giro). Ma ecco, lo so bene: lei sta per suggerirmi di rivolgermi alla polizia. Cosa che certamente ho già fatto. Come mancare? Ho qui nella cartella la copia della denuncia. Il fatto è che ora, senza carte di credito né contante, non riesco a muovermi da qui, sa? Neanche una telefonata riesco a fare. Se lei quindi potesse prestarmi, che so io, una cinquantina di euro…”.
Lo interrompo, prima che finisca.
“Guardi, mi dispiace. È capitato male. La realtà è che sono cassintegrato, senza lavoro. Non navigo nell’oro e non la posso aiutare”, dico mentre cerco di svincolarmi.
“Cassintegrato? Oh. Di quale azienda?”
“Alitalia” rispondo istintivamente. Intanto recupero il manico della valigia e riprendo lentamente a camminare nella folla. “Arrivederci”.
Lui mi si affianca. “Alitalia? Mbe’? Vi hanno pagato, e vi hanno pagato pure bene; no? Non mi dica che se la passa male, perché non le credo. Il fatto è che io, sarò sincero, mi trovo un po’ in difficoltà; devo fare, ahimé, i conti con dei mezzi limitati. Purtroppo la contingenza…”.
Mi blocco, lo guardo negli occhi “Amico mio” dico seccamente, “non è aria. Sono cinquant’anni che navigo in questa vita e che per lavoro vedo gente di tutte le risme. Non insista. Non è cosa”. Dopodiché mi riavvio, con passo più deciso.
“Cinquant’anni? Ma davvero? Non l’avrei mai detto!...” insiste, affiancandosi di nuovo. “…Li porta benissimo. Dicono che il volo faccia invecchiare la pelle, ma non è proprio il suo caso. Perché lei volava, vero? Sì, si vede. Pilota? Certo, una fortuna la sua. L’aspetto, intendo. Quando ci si trova in cattive acque alla nostra età le cose cambiano; si fanno più difficili. Un bell’aspetto come il suo indubbiamente…”.
Mi fermo. Mi giro. Lo affronto in silenzio. Lui si blocca. Ma subito riprende: “Ascolti, ho sbagliato un investimento, lo ammetto. Ma ora ho, come si direbbe tra noi, il ‘cavallo giusto’ su cui puntare. Se non trovo quel minimo credito che non si rifiuta neanche a un mendicante, ecco…”.
“La faccia finita…” gli dico a voce bassa, secca.
Lui prosegue: “ … sono davvero in gravi difficoltà…”.
“…e mi lasci in pace” insisto. “Io non sono il suo tipo. Aria!”
Accompagno l’espressione con un brusco e misurato gesto della mano. Mi giro e me ne vado.
Questa volta non m’insegue, ma continua a parlare, fermo dov’era. Distinguo la sua voce tra la folla, mentre mi allontano: “Si tratterebbe di una miseria. Cinquanta euro. Roba da pezzenti. E’ stata solo sfortuna, la mia. Parbleu! C’est incroyable!…”.
Poi il tono di voce cambia: “È per caso diretto a Milano, lei? … ” e lo sento allontanarsi.


Mi dirigo verso uno dei numerosi bar. Scuoto la testa, ripensando, mentre mi avvicino alla cassa. Ordino un decaffeinato. Pago. Ritiro lo scontrino. Mentre ripongo il denaro ricevuto come resto, mi sento apostrofare da una voce bassa di donna: “Chiedo scusa. Mi vergogno molto, ma ho fame. Potrebbe offrirmi un sandwich?”
Mi volto a osservare la donna bassa al mio fianco. Avrà una sessantina di anni. Ha un cappotto vecchio e rovinato dall’uso, che tiene chiuso con entrambe le mani, congiunte davanti al collo.
Non mi guarda. Fissa il bancone dei panini, luminoso, davanti a sé.
Senza alzare gli occhi dal cibo, prosegue: “La prego di scusarmi: ho molta fame. Può aiutarmi per questa sera?”
“Mi dica”, mormoro.
“Mi basta un panino con un caffè”.
Ordino il panino e la bevanda. Mentre pago, le porgo lo scontrino e un biglietto da pochi euro, ripiegato, facendo attenzione a non essere visto da altri.
“Grazie infinite”, mi risponde lei in un sussurro, prendendo con delicatezza il denaro senza mai alzare lo sguardo.
Poi si allontana da me.
Bevo il mio caffè guardando fuori dal bar.
Folla che brulica indifferente e impazzita, in un’ora di punta, alla stazione Termini di Roma, nel giorno di Santo Stefano dell’anno 2009. 


(Buon 2010 a tutti i lettori. Piesse)