martedì 8 giugno 2010

Undici - Anno nuovo





Anno nuovo



*

Buio.
Dove sono? Albergo! Sì, albergo. Executive. Milano. Due... tre, sette. 237.
(Mi giro nel buio – allungo una mano).
Comodino. Telefono. Telecomando. Orologio. Sigarette.
Orologio.
07:29.
Sette e mezza. Merda. Riuscissi mai a dormire un po’ di più!
Orologio. Posacenere. Accendino. Manopola. Pulsanti.
CLACK!
(Gingle)
«Rai, giornale radio,GR2»
(Gingle)
«Signore e signori buongiorno e buon anno da Cesare Palandri e tutta la redazione del gierredue radiomattino. Iniziamo la nostra rassegna di notizie, come consuetudine ogni primo di Gennaio, con il resoconto dei  festeggiamenti...».
…   
«…notte scorsa. Capodanno millenovecentonovantotto abbastanza tranquillo. In calo il numero dei feriti da fuochi artificiali, anche se registriamo, purtroppo anche quest’anno, due morti...».
«…Napoli e Ancona».
«...Colleghiamoci subito con le nostre redazioni di...».
...
«...dissuasi dal maltempo...
...Angelus in piazza...».
...      
«...Paolo secondo...».
...
...«Concludiamo con l’oroscopo di Linda Wolf. Ariete (voce di donna)».

Comodino.
Orologio.
07:55. 
OK, mi alzo.
Vago senso di nausea.
(sono seduto sul letto)
Aria viziata. Bocca impastata. Amara. Disgusto. Sonno insufficiente. Lo spumante da due lire. L'aria condizionata, arida. Troppe sigarette. Troppa TV, sparata al buio, prima di chiudere.
Capodanno da solo in albergo, steso sul letto a contare giri di fumo. Le facce di quegli scemi per forza: «Tre...Due...Uno... Millenovecentonovantotto!...».
Nausea. 
Se solo Massimo non avesse cambiato programma all’ultimo istante...

(Sette di sera. Mi sto legando la cravatta e faccio smorfie allo specchio. Trillo improvviso; fastidioso, nel silenzio ovattato).
«Ciao Gianni, sì sono Massimo; 'scolta: noi siamo in macchina...» (Marcato milanese. Risate scomposte). «'Cazzo fai?! Di là dovevi andare! Sì Gianni, scusa, èccomi. È che qui siamo già belli carburati, capirai! 'Scolta, abbiamo deciso all’ultimo: andiamo tutti da mio cognato, su, al lago Maggiore. Tu che fai ci raggiungi? …No, non più a casa mia, no. Andiamo fuori. Be’, poi lo troviamo chi ti riporta... Madài, sùpera il nonno, falla camminare 'sta vasca !...» (Ancora risate, altre voci)   «…Dicevo che poi lo troviamo qualcuno che torna a Milano... Come sarebbe ‘l'aereo alle dieci e mezza’? Così presto? Eh, ma allora... Sì, va bè, però… Mi spiace, cazzo, sono stato io a dirti... No, no, ma che dici, non me la prendo, capisco. Anzi : non prendertela tu! In fondo noi... Ma tu proprio a quell'ora lì devi partire ?...». 

La cravatta dev’essere ancora vicino al telefono.
Perché aspettare la mezzanotte sveglio, poi? Meglio dormire.
Che altro? Leggere un libro? Mi veniva sonno e via.
Oh sì, la notte di Capodanno!
Bah, meglio che spiattellarmi gli occhi con la TV!
Ma lo capisco solo ora, che la testa mi pesa. Se la muovo è una scatola vuota, di piombo. Che duole.
Tutto eh: l’ho bevuto proprio tutto. E non era neanche buono.
Disgusto.
Ok, mi alzo.
(sono in piedi a tentoni nel buio). La tenda.
Apro la tenda.
Diafano grigio uniforme.
Spalanco la finestra.
Piove, paro e freddo.
Cioè Milano.
Lontano, sopra le case, il ‘Pirelli', fantasma scuro dai contorni indistinti. Inquietante, in lattigine immobile.
Strano silenzio Via Sturzo deserta, qui sotto.  
Vuoto tagliato di nero dai fili del tram. Non si notano mai i fili del tram, quando le macchine sfrecciano, o quando si ammassano tutte a scatti nevrotici, per aggredire il semaforo.
Di là della strada l'androne surreale della stazione Garibaldi. Una sola persona, un cinese, consulta il tabellone degli orari dei treni. Sembra un cinese. Spicca il blu dei suoi jeans nel cupo di grigi e marroni.
Non un rumore.
Non un movimento.
Si sposta soltanto il vapore del mio respiro. L’aria gelida (per altro piacevole) lo ricaccia dentro la stanza alle mie spalle. 
Mi volto. Mani sui reni. Dolore sordo. Respiro profondo. Letto troppo morbido.
La cravatta è lì, vicino al telefono. Sotto il vuoto verde e oro dello spumante.
Trascino i piedi verso l’interno.
Lampo d’intuito: gli acari della moquette scombussolati dal mio alluce trascinato. Kafkiano. Brivido di schifo.
Scatti metallici di neon. Paziente attesa forzata e… luce del cesso.
Doccia calda.
Formicolio di sollievo dei muscoli torpidi.
Mi asciugo.
Cerco novità nello specchio. Mi rado.
Mi vesto. Due ore e si parte.
Lavoro di merda.
Esco a cercare un po’ di caffè.

L’unico bar aperto è in stazione. Attraverso la strada senza guardare. Entro in stazione. Passo davanti a un enorme albero di Natale, eretto nell’androne principale, di fronte alle biglietterie chiuse; luminoso intermittente; squallido e isolato, come una menzogna scoperta nel silenzio che la segue. Una voce femminile metallica annuncia i primi treni per Lecco e Sesto S.Giovanni. Il cinese è scomparso. Ma era un cinese? Non c’è anima viva. Non un macchinista, non un passeggero, un saccopelista, un barbone. Nessuno. Entro nel bar.
Una donna magra, cinquantina portata male, capelli grigi corti, incolti, occhio strabico che mira da un lato, esce da una porta dietro al bancone di mescita. Ha il grembiule macchiato, le mani nodose, tumide di detersivi; odora di fumo, si sente da qui. Mi accoglie con un mormorio; prepara e mi serve un caffè lungo e un cornetto. Esige subito il pagamento e sparisce, là da dove era comparsa.
Sono di nuovo solo.
Saluto ugualmente, uscendo.
                               
**

Alle 8:37 il ragioniere Golelli, 35 anni, uscì dall’Hollywood in Corso Como, barcollando leggermente, per raggiungere la macchina parcheggiata. Si passò una mano sulla stempiatura precoce. Respirò profondamente.  
Ok. Fine della festa.
Diversa da come si aspettava. In fondo piccola, la discoteca; troppo caldo; troppa folla. Volume troppo alto.
Con gli amici di sempre. Biagio, Chiara, il Biro, Giorgio e Alessia, Gianna e Lello. Alessia sempre inseguita dalle sue morbide forme, sode, tondeggianti; stasera strette in una gonnellina corta, di paillettes, che dietro ondeggiava insolente, a ogni passo.
Per la prima volta tutti in un locale, anziché i soliti tombola e mercante in fiera. Un evento. Non un posto qualsiasi, no: una discoteca famosa. Conto salato. Gente elegante. Mondanità. Molta gioventù ‘bene’ di Milano. Qualche viso noto. Pieno di belle donne.
Già. Belle donne.
Aveva qualcosa da raccontare, in azienda.
Immaginava la faccia di Baretti, il caposervizio, che chiede, ma dissimula interesse. Capodanno in casa, quello del Baretti, da sempre. Moglie, suoceri e genitori anziani… «Che donne!» gli avrebbe detto. «Sembrava si fossero date raduno lì! Quelle che vedi solo sui giornali, hai presente? Giovani, fresche, allegre. Un piacere, Baretti, credi a me!».
Un fremito di freddo lo riscosse dall’immagine di Baretti, e dal racconto. Stava camminando in mezzo alla strada. Corso Como deserta. Stranissima sensazione. All’arrivo aveva dovuto girare molto, per trovare parcheggio. Si diresse verso l’hotel Executive, Via Sturzo, per raggiungere l’angolo di Via D’Azeglio. Si era guardato bene intorno, stanotte: che nessuno lo vedesse scendere dalla vecchia Fiat Uno rossa, scolorita. Girò a sinistra, sotto i portici. Si accorse che non stava più prendendo acqua. Tornò a passarsi una mano sulla fronte, e sui pochi capelli. Erano bagnati. Gettò un’occhiata verso la strada. Pioggerellina. Al Biro avrebbe telefonato più tardi.
Il movimento del braccio gli restituì una folata umida di profumo femminile. Si annusò la mano destra. Shalimar. Guerlain.

Saranno state le tre. Festa ancora in pieno svolgimento. Biondina. Sì e no vent’anni. Aveva certamente bevuto. O forse (più intrigante) una pasticca. Sì, aveva notato anche lui degli strani movimenti vicino ai bagni.
Patrizia.
Nome falso, forse. Ci aveva pensato troppo.
Se l’era ritrovata tra le braccia, in uno di quei momenti in cui la massa sbanda, perché qualcuno fa il pirla. L’aveva aiutata a rialzarsi, le braccia sotto le ascelle nude e calde, la mano destra su un seno morbido piccolo e sodo. Un abitino da sera leggero e Shalimar di Guerlain. Quel “classico” che addosso a una ragazza giovane ti confonde, ti fa diventare matto. Pensieri lascivi sulle pieghe del corpo di lei. Che intanto gli chiedeva da bere.
Luigi Roncini, per tutti il Biro, farfugliava di macchine al bar con quattro distratti. Non si accorse nemmeno del loro passaggio, peccato. In ufficio sarebbe stato un testimone prezioso. Biagio, Chiara, Giorgio e Alessia erano già via - beati loro - a finire di festeggiare in casa. Gianna e Lello ballavano. Lontani.
S’era fatto coraggio. Cuore imballato. L’aveva fatta bere, forte, ridendo; facendola ridere. C’era riuscito, proseguiva a dirsi. E si guardava intorno, a vedere se qualche uomo venisse a cercarla. Poi aveva ordinato un altro giro, perché: «Non ci siamo ancora scambiati gli auguri!». Non era riuscito a pensare a nulla di meglio. Auguri. Giù. Lei tutto d’un fiato. E di nuovo a ballare, vicini nella calca, parlandole all’orecchio - «Mi chiamo Giacomo!» - per sovrastare il frastuono. Il naso nei capelli e sul collo di lei; le mani ai lati del seno, là dove finisce il vestito e gli indici sfiorano pelle. «Sei molto bella!».
Lei sempre sorridente, forse inconsapevole, ora certamente ubriaca, quasi automatica nei movimenti del corpo. Le lunghe gambe tornite, fasciate di nero trasparente e costoso; ferme sul posto e sui tacchi di raso scuro. Solo il bacino in movimento, e le braccia; gomiti stretti sui fianchi.
            Poi era arrivato lui. Uno e novanta. Un bel vestito di firma, camicia chiara, dal collo evidente, marcato; senza cravatta. Gel sui capelli corti; attaccatura bassa sulla fronte abbronzata, neri. Tutti. Sguardo tra l’intenso e l’imbecille. Sorriso stampato tra due pieghe studiatamente amare; ore di prove allo specchio. Si era infilato tra loro, dandogli volutamente le spalle, per escluderlo senza parlarne nemmeno. L’aveva cinta alla vita e maltrattata con ritmo per qualche secondo, bacino contro bacino. Quindi era giunta un’amica di lei, per dirle qualcosa all’orecchio, indicando se stessa sul seno e poi il ganzo. Patrizia aveva spalancato gli occhi inespressivi con meraviglia, poi rovesciato indietro la testa e si era offerta a un bacio impudico e masticato del tipo, che un attimo dopo le aveva portate via entrambe.
Via. Dal locale.
            Giacomo li aveva seguiti con gli occhi, immobile nella calca, fino a vederli uscire. Poi s’era annusato la mano, per sentire il profumo di lei, cercando all’intorno: dov’era finito il Biro?
Il Biro, era ancora al bancone del bar. «Ehi! L’hai vista?» gli aveva detto, dopo averlo raggiunto.
            «Cosa?» aveva urlato quello, in risposta.
            «La bionda che ho rimorchiato!».
            «Dov’è? Ma che dici? Ma va! Non prendermi per il culo!».
            «Ma no, sul serio! Si chiama Patrizia! Dai, non l’hai vista?».
            «Golelli, non fare il coglione: dove sarebbe la bionda?».
            Non aveva esitato che un attimo: «Non ho tempo, ti dico! Sto uscendo. La porto da me!».
            La faccia sgomenta e sorpresa del Biro. Solo quella avrebbe raccontato poi a tutti.

*

Il tempo sembra assumere un senso solo in queste occasioni. 
Festeggiare cosa?
Si festeggia per non fermarsi a contare!
La confusione, tutti insieme. Alcol. Cibo. Fumo. Allegria di prammatica. Voluta a ogni costo. Ci si confonde sugli anni con un rito immutabile. Illusione di invariabilità. Eternità fittizia.
Perché si festeggia il capodanno? Se Massimo non avesse cambiato programma all’ultimo istante, avrei affogato nella baldoria i miei conti.  Che invece ho fatto, e rifatto, steso sul letto. Con lo spumante. Solo.

Era stata Laura a convincermi, mio malgrado, con la sua voce un po' petulante: «Lavori anche il primo dell'anno? Ma dài! Va be’: vieni ugualmente, no?! A casa di Franco si sta bene. L'anno scorso c'era pure un po' di robina. …Non importa se non conosci nessuno. Guarda che a Milano non siamo mica marziani! …Ma che sei matto? Da solo? Nooo, da soli mai! Si deve fare casino, a capodanno! Ma pensa che tristezza: tutti festeggiano, in tutto il mondo, e tu da solo, a fare una cena normale! E poi voglio vedere chi te la dà, una cena normale, alle otto di sera del 31 dicembre! E magari te ne vai a letto e leggi un libro! Dài dài dài: dico a Massimo che ti venga a prendere».
Non c’è cosa che io detesti più di una aspettativa delusa. Preferisco ammazzare il desiderio, prima ancora che generi attesa.
Salgo le scale del sottopassaggio. Qualche goccia di pioggia sugli ultimi gradini. Il caffè era bruciato. Aveva un gusto pessimo.
I portici davanti all’albergo.
Non c’è proprio nessuno.
No. Qualcuno arriva. Barcolla. Ha bevuto anche lui. Vestito da sera, chissà da dov’esce. Sorriso un po’ scemo. Ma no: felice. Che ore sono? Le otto e quaranta. Bella la festa eh? Beato te, che sei stato con gli amici e ora te ne vai a dormire contento!
M’accendo una sigaretta. Lo guardo passare. «Buon Anno» gli dico.
Mi guardi? Che guardi? Rispondi, imbecille, è un augurio!
Nulla.
Ma sì, che te frega? Ti sei divertito. Sei a casa. “Chissà cosa vuole ‘sto scemo” ti starai chiedendo. Hai ragione.
Lavoro di merda.

**

Era entrato in macchina intorno alle 3:30, e aveva deciso di cambiare parcheggio; di spostarsi un po’. Un giro di quartiere. Un posto che si libera in una via traversa.
Due manovre.
E di nuovo silenzio.
Il ticchettio del portachiavi che finisce di dondolare.
Abbassato lo schienale del sedile di guida, si era steso. Aveva preso la fiaschetta del whisky dal cassettino portaoggetti e aspirato due profonde sorsate. Inghiottite con un leggero colpo di tosse, aveva atteso che facessero effetto.
Però, carina la tipa! Golelli, ci sei andato vicino, aveva pensato tra sé. «Certo: non ci fosse stato il ganzo…». Aveva pronunciato questa frase piano, accendendo la radio, il braccio steso con un leggero sforzo di addominali. Sintonizzata una stazione con musica classica, a basso volume, aveva chiuso gli occhi. Gli fischiavano le orecchie. Troppo alto il frastuono, in discoteca.
Gli tornò in testa la serata dell’anno precedente. Casa di Alessia. Una decina di persone. Le lenticchie di Chiara, a mezzanotte: insuperabili, come ogni volta. Si era poi giocato a carte, in allegria; e tirato l’alba in conversazioni sommesse, simpatiche e soddisfatte. A tratti anche tènere, a ricordare l’amicizia di una vita; tanti piccoli episodi che costruiscono l’affetto. Quest’anno invece niente lenticchie. Cena in piedi: pasta al salmone in piatto di plastica, spumante e dolce. Addio tradizione. Niente piccoli episodi. Nessuna scansione dell’affetto.

Quando riaprì gli occhi aveva la bocca impastata e sentiva freddo. Sì scosse e si massaggiò le braccia, una con l’altra. Diede un’occhiata all’orologio da polso: le 7:35. Scese dall’auto e si avviò di nuovo verso la discoteca, rassettando gli abiti. All’ingresso mostrò il biglietto a una ragazza semi-addormentata. I buttafuori non c’erano più. Dentro, la musica andava ancora. Meno gente. Riconobbe uno degli interlocutori del Biro, disteso su un divano, che dormiva a bocca aperta. Una donna al suo fianco gli carezzava la testa con una mano e si guardava le unghie dell’altra. Ordinò un Bloody Mary. Aveva sete. Poi un altro. Aveva anche fame. Salutò con un gesto Gianna e Lello che, a distanza, recuperati i cappotti, si avviavano all’uscita. Lello  portò una mano di fianco al viso, pollice e mignolo distesi, le altre dita raccolte: si sarebbero sentiti per telefono. Con la stessa mano fece ciao ciao anche lui, prima di voltarsi e uscire. Del Biro nessuna traccia.
Prese a conversare con il barista, che stancamente riordinava il bancone e asciugava bicchieri.

Quando uscì, intorno alle 8:30, sentiva la testa pesante. Si passò una mano sulla stempiatura precoce. Si accorse di barcollare. Respirò a fondo. 
Ok. Fine della festa.
Fece qualche passo in mezzo alla strada deserta. Poi infilò i portici di Via Sturzo, verso la macchina, e s’immerse nei pensieri. Poco dopo, lontano davanti a lui, scorse una figura. Un uomo alto, vestito di scuro, con un cappello militare. Il portiere dell’albergo? Gli era sempre più vicino. No. Strano abbigliamento, però. Forse un pilota.
Sì un pilota.
Beato te, pensò osservando il tipo. Bella vita, la tua. Festeggiato il Capodanno, chissà dove te ne vai, ora, eh?...
Passò oltre, cercando con le mani in tasca le chiavi della Fiat.

***

Elisa si asciugò le mani, tornando nel retrobottega del bar. La sigaretta fumava ancora nel posacenere. La prese per un ultimo tiro avido, prima di schiacciarla, e si sedette di nuovo davanti ai fogli sparsi sul tavolo, pieno di briciole. Con le 40.000 lire guadagnate quella notte avrebbe pagato la bolletta della luce. Ma era nuovamente senza lavoro e, sola, non avrebbe saputo più a chi chiedere…